Nell’acceso dibattito sui rifiuti ci si concentra di solito sui metodi di smaltimento: più differenziata e meno discariche, inceneritori o termovalorizzatori sì o no.
Raramente il problema viene affrontato all’origine: possiamo generare meno rifiuti, invece che preoccuparci soltanto delle modalità del loro smaltimento? Oggi in Italia produciamo circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani all’anno, ogni abitante ha così a suo carico circa 500 kg di rifiuti, quasi 1,5 kg al giorno.
Non vi sembra un po’ troppo? È su questo numero che bisogna lavorare, per ridurlo alla fonte e ovviamente trasformarlo in una filiera il più possibile riciclabile. Il 22% dei nostri rifiuti sono organici, circa un centinaio di chili all’anno di scarti di cucina; questi se ben separati con la differenziata non pongono un problema, perché si possono trasformare in biogas o in ottimo compost fertilizzante.
Anzi, chiunque abita in una casa con un orto o un giardino è caldamente esortato a produrre il compost da sé, evitando il conferimento alla raccolta meccanizzata che consuma gasolio e produce inquinamento. Il vetro, il legno, la carta e i metalli si possono separare e riciclare facilmente e in genere sono materiali che consumiamo in quantità stabili nel tempo. Il problema più rilevante nasce dagli imballaggi di plastica, in continua crescita, difficili da separare e da riciclare per la grande varietà di tipologie non compatibili tra loro e per via di materiali poliaccoppiati, cioè che combinano carta, cartone, plastica e alluminio, come certe confezioni di bevande o contenitori alimentari. In questo caso siamo noi che possiamo evitare di acquistare oggetti dove l’imballaggio sia preponderante rispetto al contenuto, pretendere confezioni ben riempite, ricorrere allo sfuso, limitare le vaschette da gastronomia e le verdure già pulite e confezionate in plastica. Questa fase, in cui noi consumatori ci assumiamo la responsabilità della scelta, dovrebbe evolvere in una sempre maggiore cura nella progettazione di materiali sostenibili all’origine, attraverso l’ecodesign: dovrebbero essere, infatti, le industrie stesse a domandarsi quale sia la sorte del loro prodotto a fine vita e a concepire materiali e imballi in ragione della loro minima quantità possibile e della riciclabilità o biodegradabilità totale. Se non lo faranno i produttori, dovrà farlo la politica, introducendo tasse e normative sempre più stringenti (e per questo scarsamente popolari...), come sta procedendo l’Unione Europea nei confronti della plastica monouso, il cui commercio verrà tra breve proibito, sia pur tardivamente, visto che i nostri mari sono ormai infestati da una immonda zuppa di plastica.
Nel frattempo, ogni volta che acquistate qualcosa, pensateci su, chiedendovi dove finirà il vostro rifiuto e valutando alternative meno inquinanti.