Schiaffi, pugni, calci, spesso preceduti da un fuoco incessante di critiche che giorno dopo giorno minano l’autostima, ma anche la soggezione economica che impedisce concretamente di bastare a se stesse. Come si entra, perché si resta invischiate per anni e perché è tanto difficile uscire da spirali di violenze che appaiono insostenibili. Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta Elisabetta Gallotta, referente dell’area violenza dell’associazione Aspic Psicologia (www.aspicpsicologia.org) e dello sportello antiviolenza e antistalking di Aspic attivato dall’VIII Municipio di Roma.
Quali sono i meccanismi psicologici che spingono una donna nella rete di uomini violenti?
«Gradualità, ciclicità e isolamento: i meccanismi che fanno scivolare una donna nella violenza sono gli stessi che ne rendono difficile l’uscita. La violenza non inizia mai con un pugno in faccia ma con maltrattamenti psicologici che si trasformano poi in violenza fisica e sessuale per arrivare allo stalking (comportamenti persecutori ripetuti e intrusivi) e talvolta all’omicidio. Il passaggio è progressivo: dalle attenzioni eccessive alla possessività maniacale, alle richieste di cambiare il proprio aspetto fisico, il maltrattante passa alle critiche, alle offese, a controllare la quotidianità, a impedire contatti con parenti, amici, colleghi. La violenza ha poi un andamento ciclico: dopo l’escalation dalle microviolenze all’aggressione, l’uomo fa di tutto per farsi perdonare fino a ottenere la riappacificazione e così il ciclo può iniziare di nuovo. Altro elemento cruciale è l’isolamento nel quale la donna è trascinata e mantenuta da chi la maltratta: questa solitudine induce una “paralisi psicologica” che colpisce non solo la memoria e i pensieri, ma la stessa capacità di agire e prendere un’iniziativa».
Esistono forme di violenza più subdole e meno identificabili di altre?
«Certamente. La violenza psicologica, meno eclatante di quella fisica, ha ugualmente un grande potere distruttivo. Ripetere a una donna che è stupida, brutta, che è una cattiva madre, considerarla responsabile delle difficoltà dei figli, far leva sulle sue debolezze per farla sentire inadeguata, criticarne i comportamenti neannienta l’autostima predisponendola all’entrata nella spirale della violenza e a restarci nel tempo. Anche il sopruso economico contribuisce all’annientamento: è violenza economica impedire a una donna di lavorare, obbligarla a lasciare il lavoro, controllarne l’estratto conto, sottrarre il bancomat, obbligarla a versare il suo stipendio sul conto corrente del partner, sfruttarla come forza lavoro nell’azienda di famiglia senza che percepisca uno stipendio. Ma anche non adempiere ai doveri di mantenimento stabiliti dalla legge nei confronti dei figli in caso di separazione o divorzio».
Qual è il primo passo per uscire da questa spirale di violenza?
«Qualcosa deve rompere l’isolamento affinché la donna possa sentire di potercela fare o di non poter sopportare più oltre e attivare così la prima richiesta di aiuto. In questo senso i centri e gli sportelli antiviolenza fanno un lavoro straordinario così come il 1522, il numero verde nazionale antiviolenza e antistalking. Importante è anche cosa ciascuno può fare contro la violenza sulle donne: per prima cosa guardarla in faccia, senza negarla o sottovalutarla relegandola a certe categorie di donne o di uomini. Nell’incontro con una donna che subisce violenza è poi essenziale crederle, non giudicare, non minimizzare: ascoltare e accompagnarla, quando è pronta, in un centro antiviolenza».