Impronta digitale

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7 Luglio 2017
Tra e-mail, messaggi istantanei vari, video, ricerche su internet e spam che riempiono le caselle di posta, mandiamo in atmosfera ogni anno milioni di tonnellate di CO2. L’”impronta di carbonio”, ossia il costo salato che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) fanno pagare all’ambiente e al cambiamento climatico. Ma invertire la rotta si può, con le energie rinnovabili e un nuovo modo di stare al mondo... virtuale.
di Patrice Poinsotte

Visto 2,7 miliardi di volte, Gangnam Style ha consumato tanta elettricità quanto una piccola centrale ogni anno; l’inquinamento annuale dello spam equivale a quello prodotto da 3 milioni di macchine; 2 ricerche su Google generano 14 grammi di carbone, come prepararsi un tè col bollitore elettrico, e basta usare un computer per consumare tra 40 e 80 grammi di CO2 all’ora. Se poi vi prendete cura di un avatar su Second Life in un anno consumate come un brasiliano medio, cioè oltre 1.700 chilowatt ora. Considerando l’insieme dei 3,5 miliardi d’internauti, 365 giorni all’anno, arriviamo a un’“impronta di carbonio” (l’impatto sull’ambiente) pari a quella dell’aviazione civile, vale a dire oltre 600 milioni di tonnellate di gas serra mandati in atmosfera ogni anno. Oggi. Perché domani saremo 5 miliardi ad usare la rete, con 50 miliardi di oggetti connessi nel 2020, a detta degli esperti, tra computer, smartphone e compagnia tecnologica.

Guasti di rete
Ebbene, a giudicare dai numeri il mondo virtuale – cellulare, internet e tutto quello che chiamiamo Tic, cioè le tecnologie dell’informazione e della comunicazione – produce guai ambientali reali. Dietro all’istantaneità delle comunicazioni, alla leggerezza del cloud (la “nuvola” informatica che permette l’archiviazione, l’elaborazione e la trasmissione dei dati su internet) e alla mobilità dei nostri smartphone sono all’opera, infatti, strumenti e strutture materiali che hanno bisogno di manutenzione ed energia. Tanta energia, insieme a quella che i nostri gesti di smanettoni più o meno assidui consuma ogni giorno. E il prezzo che paga il pianeta è molto alto. «La digitalizzazione è certamente qualcosa di positivo anche dal punto di vista ambientale, visto l’enorme risparmio che si può ottenere in termini di spostamenti (e dunque di emissioni inquinanti) e di uso di carta, solo per fare un paio di esempi ben noti a tutti – afferma Luca Iacoboni, responsabile Campagna Clima ed Energia di Greenpeace Italia –. Però, c’è un però, relativo all’uso di energia. Nel 2012 il digitale ha utilizzato il 7% dell’elettricità globale, quota destinata ad aumentare, visto l’incremento del traffico internet globale; si prevede che quest’anno la percentuale supererà addirittura il 12%», Iacoboni snocciola dati che fanno riflettere.

Prima dell’uso
Per capirci meglio. All’inizio la rete funzionava grazie ai router, delle piccole scatole lampeggianti che smistavano le informazioni incanalandole in cavi che oggi tessono una rete di 930mila chilometri, quasi tre volte la distanza Terra-Luna. Un cablaggio questo che ha bisogno di un’ingegneria particolarmente costosa per collegare tra loro i continenti grazie a navi che coprono tutto il pianeta. Insomma delle vere e proprie autostrade dell’informazione sulle quali viaggiavano, nel 1992, circa 100Gbit (l’equivalente di una stagione di Game of thrones in hd...) al giorno; nel 1997 il dato era all’ora, nel 2002 al secondo, al 400esimo di secondo nel 2014. La soglia dei 5miliardi d’utenti nel prossimo decennio costringerà sia all’aumento del numero che della potenza di queste autostrade. Quindi l’impatto maggiore è determinato dal consumo di energia e prima di accendere il computer. Lo sostiene Cédric Gossart, professore presso la Mines- Telecom, grande scuola d’ingegneria: «L’influenza più significativa delle Tic è a monte, cioè prima della fase d’uso. Da qui l’importanza di ridurre non soltanto il consumo, ma anche le vendite di materiale informatico», visto che le riserve di alcuni metalli come, per esempio, il litio delle batterie per cellulari e computer, non andranno oltre i prossimi 15 anni.

 

Il grande caldo
Ma i guai per l’ambiente non finiscono qui. I data center – in parole povere, i giganteschi centri informatici da dove si orchestra internet –, 3.209 nel mondo distribuiti in 104 paesi, hanno bisogno di una temperatura costante per funzionare in modo corretto, in permanenza. Ebbene nel giugno 2015, un mese dalle temperature record, con picchi a più di 40 gradi ovunque nell’emisfero nord, la colonnina di mercurio nei data center non è salita oltre i 24 gradi centigradi. L’esperienza ci aiuta a capire: quando lavoriamo col computer portatile appoggiato sulla gambe lo sentiamo scaldarsi. Immaginate in uno di questi colossi pieno di server nei quali transitano informazioni provenienti da tutto il mondo che caldo ci sarebbe, se non fosse per un sistema di raffreddamento molto efficiente che, però, rappresenta oggi l’1,4% del consu-mo mondiale di energia, cioè la capacità di produzione di circa 40 centrali nucleari (un data center di Facebook consuma un quantitativo di energia pari a una città come Venezia). Come puntualizza Michel Petit, membro dell’Accademia delle scienze in Francia «ogni chilowatt necessario per fare funzionare un server necessita di un altro chilowatt per raffreddarlo».

 

Energia sprecata
Un serpente che si morde la coda. E un peso enorme per l’ambiente, destinato ad assumere proporzioni anche maggiori tanto che l’Onu tiene d’occhio le emissioni di gas serra generate dalla rete nella lotta al cambiamento climatico. Ma allora un internet ecologico è possibile? «Assolutamente sì – risponde il responsabile delle Campagna Clima ed Energia di Greenpeace Italia –. La mossa fondamentale è alimentare i propri data center al 100% con energia rinnovabile. È un impegno che Apple, Google e Facebook hanno preso e stanno compiendo grandi passi in avanti. Mentre Netflix, Amazon Web Services e Samsung sono ancora in ritardo». Quanto a noi utenti, considerando che un’ora di video su un tablet o uno smartphone consuma più energia di un frigorifero e che scaricare il giornale è come fare il bucato in lavatrice, basterebbe poco per rendere il tasto meno dolente.

 

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