Luca Pellegrini, docente di marketing presso l’Università Iulm di Milano.
La tendenza mondiale degli ultimi decenni a costruire imprese di dimensioni sempre più grandi anche in campo alimentare è destinata a proseguire ineluttabilmente?
«Anche se forse non c’è una risposta definitiva, credo che sia doveroso chiedersi se le operazioni di questo tipo siano ora da considerarsi come scelte di attacco o di difesa. Magari con intensità diverse, ma tanto in Italia come nel resto del mondo, sugli scaffali dei supermercati si vedono sempre più prodotti che hanno un legame col territorio, che sono legati a caratteristiche nutrizionali specifiche, che propongono un contenuto di qualità forte. Un po’ il contrario di molti di quei marchi noti in tutto il mondo che sono la forza delle grandi società. Questa crescita, articolata e vivace, che tutti possono riscontrare facendo la spesa, è indicatrice di una tendenza di fondo che non ha certo rafforzato le vendite delle multinazionali ».
E come hanno reagito i grandi colossi a quest’evoluzione del mercato?
«C’è chi ha ridotto la presenza, come Unilever, o addirittura è uscita dall’alimentare, come Procter & Gamble. Per altri aspetti si procede, invece, con acquisizioni e fusioni che sono più degli arroccamenti in territori ritenuti sicuri perché meno toccati dalle nuove tendenze a cui abbiamo accennato. È chiaro che in un mercato enorme come quello dell’alimentare, anche se i consumatori cercano di più il legame col territorio, ci sono grandi marchi che garantiscono comunque grossi volumi su scala planetaria. E dunque qui cercano di posizionarsi i colossi del settore».
Quanto pesano la dimensione finanziaria e la riduzione dei costi nell’azione di questi big?
«Il peso della finanza è fortissimo, non c’è dubbio, così come la ricerca di contenere i costi. Ma è chiaro che, per fare utili, anche se la proprieintervista tà di un’impresa è di un fondo d’investimento, devi avere prodotti che si vendono. Per cui anche le grandi società, che pure puntano a essere leader per i volumi di vendite, agendo su più paesi, devono comunque confrontarsi con l’innovazione. Cosa che può avvenire provando a lanciare o acquistare nuovi marchi o linee di prodotto che se non funzionano, vengono poi abbandonate o cedute. È un balletto continuo. Anche Nestlé ha fatto di recente un’operazione di pulizia prendendo atto che certi marchi non andavano».
Per un paese con un patrimonio agroalimentare come il nostro quali strategie si devono adottare per non essere solo vittime dei più grandi?
«Nel campo dell’industria alimentare l’Italia è stata molto meno colonizzata rispetto ad altri settori nei quali invece la presenza straniera è diventata dominante. Certo anche nell’alimentare, nel corso degli anni, abbiamo perso marchi importanti, da Parmalat a Invernizzi, ma abbiamo anche grandi realtà, che hanno un valore mondiale, come Barilla o Ferrero. Decisiva resta la capacità imprenditoriale e la voglia di innovare e cogliere le spinte nuove di un mercato che si muove rapidamente. E in questo molte imprese italiane si sono mosse bene».
La maggiore consapevolezza e la spinta dei consumatori stanno incidendo sulle novità di cui parliamo?
«Non c’è dubbio che il ruolo dei consumatori, anche se esercitato con qualche contraddizione, sta diventando fortissimo. C’è una tendenza di fondo legata a quello che io chiamo il “bell’essere”, cioè la somma di benessere e bellezza, che si è ormai affermata. Nonostante la crisi il biologico ha registrato un boom significativo, anche se costa di più. Che ci sia una sempre maggior consapevolezza dei consumatori è un fatto positivo e le aziende devono tenerne conto. Chi non lo ha fatto, ha perso quote di mercato».