Alta concentrazione

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Valgono decine, anche centinaia, di miliardi di dollari in borsa e concentrano nelle loro mani la gran parte del cibo mondiale. Sono le multinazionali dell’industria alimentare, poche, potenti aziende, marchi noti e meno noti, che fanno la buona e la cattiva tavola e affari d’oro, pensando più agli azionisti che al bene dei consumatori, dei produttori, dell’ambiente.
di Dario Guidi

Se c’è qualcosa che è sicuramente simbolo della globalizzazione sono loro, le grandi multinazionali del cibo. Aziende che valgono in borsa decine, in diversi casi centinaia, di miliardi di dollari e le cui vendite viaggiano anch’esse con gli stessi ordini di grandezza. Parliamo di Nestlé, Pepsi Cola, Unilever, Kraft-Heinz, Coca Cola, Mondelez, Anheuser-Busch, Diageo, Danone, Kellogg e via dicendo. Nomi a volte ultra noti, altre volte meno conosciuti a chi va fare la spesa. C’è chi ha stimato che queste imprese controllino il 70% del cibo mondiale.

Pensare in grande
Chissà, avere una cifra esatta è impossibile, ma certo il potere di queste realtà è enorme. Anche perché spesso i consumatori non hanno ben presente che dietro al nome della casa madre stanno decine e decine di marchi diversi che, spesso, siamo portati a pensare siano aziende indipendenti. Alla fine, secondo la stima fatta da un’associazione come Oxfam, che a queste grandi multinazionali (e ai loro comportamenti più o meno virtuosi) ha dedicato un rapporto, parliamo di almeno 500 marchi che troviamo ogni giorno sugli scaffali quando andiamo a fare la spesa. C’è chi ha sperimentato come in un normale supermercato americano, della dozzina di marchi di margarina mediamente presenti, tutti appartengano in realtà a sole due aziende. La tendenza degli ultimi decenni è stata quella di avere imprese sempre più grandi, in un susseguirsi di scalate, acquisizioni e fusioni, animate sempre dalla stessa logica della globalizzazione: garantire profitti agli azionisti, far leva sulla finanza e sugli andamenti delle quotazioni di borsa, ridurre i costi, agire su scala mondiale grazie alla forza dei marchi e della pubblicità. Una corsa che pareva inarrestabile, come pareva inarrestabile la corsa a una globalizzazione sempre più feroce e spietata. Proprio per questo, poche settimane fa, il colosso Kraft-Heinz, nato appena nel 2015 dalla fusione tra Kraft (che in Italia significa maionese e sottilette) e Heinz (re del ketchup Usa), con una capitalizzazione in borsa da 118 miliardi di dollari e vendite per 26,2 miliardi, ha deciso di lanciare un’offerta d’acquisto da 143 miliardi di dollari verso Unilever (società anglo-olandese da oltre 50 miliardi di vendite). È importante notare che i padroni di Heinz-Kraft sono il miliardario americano Warren Buffett e il fondo brasiliano 3G dietro cui sta Jorge Paulo Lemann, uno degli uomini più ricchi del paese. Ebbene sia Buffett che Lemann hanno i loro soldi investiti in decine di società e aziende che operano nei più diversi campi e dunque la loro logica è prima di tutto far fruttare il loro investimento (si parli di cibo o telefonini nulla cambia).


Lo schema qui sopra, realizzato nel 2012, raffigura come a livello mondiale a poche grandi società facciano capo centinaia di marchi  diversi. Dal 2012 ad oggi tante cose sono cambiate: alcune aziende, come Kraft e Heinz, si sono fuse dando vita ad un’unica realtà e molti marchi sono passati  a società diverse. Ma la sostanza, e cioè la grande concentrazione del mercato alimentare, è ancora la stessa.

I signori del cibo
In pochi giorni l’attacco di Kraft-Heinz si è, però, sciolto come neve al sole. Colpa dell’opposizione dei vertici di Unilever e dei dubbi (se non di più) dei Governi. E così Kraft ha fatto marcia indietro. Ma gli esperti garantiscono che Buffett e Lemann, sfuggita Unilever, siapprestino a lanciarsi verso altre prede, sempre nella logica di crescere per avvicinarsi, se non superare, il numero uno mondiale nel campo del cibo che è Nestlé, con vendite per circa 80 miliardi. «Per leggere una vicenda come questa tra Kraft-Heinz e Unilever – spiega Stefano Liberti, giornalista d’indagine e autore del libro I signori del cibo, che proprio delle grandi dinamiche mondiali in questo campo si occupa – la prima cosa da mettere in evidenza è come la dimensione finanziaria sia sempre più decisiva rispetto a quella industriale. Si disegnano scalate pensando a come aumentare utili che spesso derivano, come nel caso della fusione tra Kraft e Heinz da tagli ai posti di lavoro per circa il 20%. Soprattutto negli Usa questi gruppi operano non certo per rendere conto ai consumatori. Il riferimento sono gli azionisti a cui occorre garantire lauti dividendi». E c’è dell’altro, ma le cronache economico-finanziarie ne parlano poco o per niente. «La logica con cui si muovono queste grandi multinazionali – prosegue Liberti – ha ricadute pesanti per l’approccio che hanno verso l’ambiente e verso i paesi più poveri da cui vengono risorse e materie prime. Nel mio libro le chiamo “aziende locusta” perché sono in grado di ottenere economie di scala gigantesche, anche a costo di far pagare il prezzo all’ambiente e ai produttori». Fenomeni come il land grabbing – l’acquisizione di enormi quote di terreno agricolo nei paesi in via di sviluppo da parte di compagnie multinazionali – sono il simbolo di questo approccio estrattivo: cioè prendo le risorse, le uso sin che mi servono e poi torno a casa. «Se anche la vicenda Kraft-Unilever è fallita, che la spinta verso queste mega aziende sia in via di esaurimento è tutto da dimostrare. Voglio ricordare la fusione tra Monsanto e Bayer, che avrà un enorme peso sul piano del controllo dei mercati agricoli, dei brevetti e delle sementi. O il fatto che un altro colosso delle sementi come Syngenta sia stato acquistato dalla cinese ChemChina. Sono tutte operazioni enormi – sottolinea Liberti – che accentrano risorse e aumentano il controllo di pochi sui mercati. Queste non sono buone notizie per i consumatori o per sperare di avere prodotti di maggiore qualità e senza ogm».

 

Domanda e offerta
Già perché viene da chiedersi: ma in tutto questo il consumatore dove sta? Che peso ha? Poco,ancora troppo poco. Ma non si può negare che le cose per alcuni aspetti stiano cambiando. L’attenzione per l’ambiente e per il rispetto dei diritti sono sicuramente cresciuti. Così come c’è più attenzione verso un’alimentazione salutare, equilibrata e senza eccessi. Del resto il paradosso di un mondo che da un lato ha un poco meno di 1 miliardo di persone che soffrono la fame e dall’altro ha più di 1 miliardo di obesi e sovrappeso è figlio anche di ciò che queste grandi multinazionali ci hanno proposto e ci hanno convinto a mangiare. Non a caso, già da anni, colossi come Pepsi o Coca Cola stanno proponendo nuovi prodotti più attenti alla dieta. E lo stesso problema lo stanno fronteggiando altri colossi, tra cui McDonald’s. In sostanza, anche le vendite di questi supercolossi mondiali ne hanno risentito. Forse ciò è avvenuto più in Europa che negli Usa, ma tra spinta verso i prodotti biologici, scelta vegetariana di una parte della popolazione e ricerca di prodotti salutistici e legati al territorio, il cambiamento c’è stato e ha pesato. Al punto che, come spiega il professor Luca Pellegrini (vedi l’intervista qui) «può darsi che la spinta alla concentrazione in queste super società non sia finita, ma potrebbe rappresentare più una scelta difensiva e di arroccamento che non un segno di forza». Anche secondo Philip Howard, docente della Michigan State University e autore del libro Concentrazione e potere nel sistema del cibo (ancora non uscito in Italia), ci sono segni di qualcosa che si muove: «Queste grandi aziende vengono messe sotto pressione dalla domanda delle persone che portano avanti i loro valori. Stiamo vedendo non solo un aumento del biologico, ma stanno cambiando le pratiche anche sugli allevamenti di animali. C’è chi ha annunciato l’eliminazione degli antibiotici tanto che anche McDonald’s ha annunciato di volersi muovere in questa direzione».
Esempi di battaglie su cui l’attenzione dell’opinione pubblica ha inciso ce ne sono diverse altre (quella dell’olio di palma, per citarne una). «La consapevolezza del consumatore è sicuramente una chiave di volta fondamentale – puntualizza Liberti –. Ogni passo verso la trasparenza e un’informazione chiara su tutta la filiera, sulla provenienza e la storia di ciò che compriamo sono passi in avanti positivi».

Marchio di garanzia
Come Coop, la più grande impresa della distribuzione italiana, tutela il potere d’acquisto dei consumatori, la qualità e la salubrità dei prodotti in un mercato globale. Lo spiega Marco Pedroni, presidente di Coop Italia.

«Rispetto alle logiche con cui evolve su scala mondiale un settore come quello alimentare, al peso che hanno le grandi multinazionali e al ruolo che Coop svolge come più grande impresa della distribuzione italiana, credo sia doveroso partire proprio dal ricordare alcuni dei motivi che sono all’origine dell’esperienza della cooperazione di consumatori». A parlare è Marco Pedroni, presidente di Coop Italia, una realtà chiamata a confrontarsi quotidianamente con le evoluzioni del mercato alimentare e non solo. «La cooperazione è nata come prima cosa per offrire convenienza e per tutelare il potere d’acquisto delle persone. E questa caratteristica è più che mai attuale. Anche oggi nel nostro rapporto con le industrie, a maggior ragione se multinazionali di enormi dimensioni, un primo obiettivo è quello di spuntare condizioni d’acquisto vantaggiose per offrire ai nostri soci qualità a prezzi convenienti. Cosa che cerchiamo di fare anche grazie alla forza che ci viene dal rappresentare 8 milioni di soci Coop in Italia. In secondo luogo, è vero che ci sono profondi cambiamenti nelle scelte delle famiglie e di chi fa acquisti, e che c’è sempre più attenzione al proprio benessere e alla salute. Noi, come Coop, siamo i primi a volere che i consumatori siano informati ed esercitino le loro scelte in modo consapevole. Da decenni abbiamo promosso iniziative e attività in questo senso. Ci confrontiamo ogni giorno con le imprese fornitrici, per stimolare innovazione e per cercare di privilegiare prodotti che sappiano legare la qualità a un giusto prezzo. Va rile-vato che negli ultimi anni il trend degli acquisti ha penalizzato quelli che una volta erano considerati grandi marchi (solitamente controllati da multinazionali) e favorito imprese spesso italiane che meglio e più velocemente hanno promosso l’innovazione nei prodotti alimentari, con attenzione al biologico, al free from, alla riduzione di grassi e zuccheri. In terzo luogo va evidenziato che la cooperazione ha un legame storico con i territori e con i propri soci. E coerentemente con questa premessa, operiamo per privilegiare prodotti e produttori italiani; negli ultimi anni abbiamo ulteriormente aumentato l’offerta di prodotti provenienti dalle diverse regioni e territori, operando per dare valore all’enorme ricchezza della biodiversità alimentare italiana. Ma il contributo più importante che noi diamo quotidianamente per rendere il mercato più giusto e per bilanciare il peso dei grandi gruppi multinazionali,è attraverso il prodotto a marchio Coop, che credo sia la sintesi delle indicazioni che ho sin qui citato. Stiamo progressivamente allargando l’offerta dei prodotti a marchio Coop, sia con nuove linee sia rafforzando quelle esistenti. I nostri prodotti sono realizzati da 500 piccole e medie aziende italiane, eccellenti nella qualità anche grazie alla collaborazione di lunga durata che hanno con noi. Dato che in queste pagine si fa riferimento a fenomeni su scala mondiale, voglio ricordare un solo e più recente esempio dell’approccio di Coop con la scelta di portare tutta la filiera della cioccolata sotto al marchio Solidal Coop (ne parliamo a pagina 50, ndr), come già avvenuto in passato per il tè – conclude Pedroni –. Nel complesso, il prodotto a marchio Coop è cresciuto con forza nel corso degli ultimi anni e oggi vale intorno ai 3 miliardi di euro (il fatturato Barilla nel 2015 è stato di 3,3 miliardi, ndr). Una cifra che ci dà più forza per portare avanti i nostri impegni e tutelare gli interessi dei consumatori».