Piena condivisione

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Condividere le spese, un appartamento, un viaggio in auto, uno spazio di lavoro, dare e ricevere in prestito oggetti di vario tipo. È boom della sharing economy, l’economia collaborativa o della condivisione di beni e servizi, con una crescita di transazioni e ricavi, nella sola Europa, del 77 per cento lo scorso anno. E per gli esperti siamo solo all’inizio.
di Antonio Fico

Oggi una persona che si sposta in un’altra città può affittare una stanza o un apparta mento privato su Airbnb facendo amicizia - con i proprietari che gli suggeriscono le cose da fare; visitare i luoghi più suggestivi grazie a un local friend contattato tramite GuideMeRight e assaggiare le specialità tipiche prenotando una cena su Gnammo. Si può muovere, senza auto di proprietà, un po’ dappertutto con Uber, usandola nei vari spostamenti, mentre per arrivare dall’aeroporto all’appartamento approfittare di un passaggio via Blablacar. Ma avrebbe potuto andare a lavorare in un coworking, scambiarsi vestiti che non gli vanno più o fare una corsa al parco in compagnia. Che cosa hanno in comune tutte queste situazioni? La sharing economy o economia della condivisione. Da fenomeno di nicchia, l’economia collaborativa sta già trasformando in profondità le nostre vite, con effetti potenzialmente rivoluzionari nei prossimi 10 anni, quando potrebbe fare da leva per interi Paesi che oggi sono in sofferenza a causa della crisi economica. Non a caso, l’economista visionario Jeremy Rifkin l’ha definita la terza rivoluzione industriale. Un fenomeno, dice Rifkin, con cui lo stesso capitalismo dovrà scendere a patti prima o poi. Del resto i primi studi danno già risultati sorprendenti. Secondo un rapporto di Price Waterhouse Coupers, commissionato dall’Ue, il valore degli scambi è già oggi nel Vecchio Continente pari a 28 miliardi di euro, con ricavi per le piattaforme pari a 3,6 miliardi. «La nostra opinione – spiega Robert Vaughan, uno degli autori dello studio – è che la crescita dell’economia della condivisione è solo all’inizio. Si stima che entro il 2025 molti settori dell’economia della condivisione potranno rivaleggiare per dimensioni con gli omologhi tradizionali». Tra 10 anni – si legge nel rapporto – i ricavi delle piattaforme che condividono beni e servizi potrebbero raggiungere i 375 miliardi di dollari su scala planetaria. Con l’Europa che avrà un ruolo significativo nella crescita dell’economia condivisa con i suoi 80 miliardi di ricavi e un volume di transazioni pari a 570 miliardi di euro. Numeri da capogiro, a pensarci bene. A trainare questa crescita impetuosa sarebbero in particolare 5 settori chiave, che potrebbero registrare un incremento annuo dei ricavi 10 volte superiore a quella dei settori tradizionali: i trasporti, gli alloggi in condivisione, i servizi per le famiglie, lo scambio di servizi professionali e la finanza collaborativa. Con effetti potenzialmente dirompenti. «Nella finanza, ad esempio, le banche sarebbero costrette a rimettersi in discussione di fronte a masse di persone che si scambiano soldi alla pari come accade nel peer to peer lending», commenta Luciano Canova, professore di finanza e comportamenti economici presso l’Università di Pavia.

In collaborazione

Nata ufficialmente nel 2008, l’economia collaborativa trovò la sua prima consacrazione già 2 anni dopo. “Non ho bisogno di un trapano, ma di fare un buco nel muro”, scriveva la newyorkese Rachel Botsman, raccontando con il libro Ciò che è mio è tuo: il consumo collaborativo sta cambiando il modo in cui viviamo, come in piena crisi l’esplosione dei social media stava generando nuovi modelli di condivisione e di consumo consapevole. L’economia collaborativa non è un fenomeno del tutto nuovo. Lo scambio di beni con altri beni o l’affitto di appartamenti privati esistono già da tempo. Era la classica economia del dono, basata sulle reti di amicizie e familiari. «Con la nascita delle piattaforme digitali, come Airbnb e Uber – rileva Canova – avviene il salto di qualità: aumenta il raggio d’azione delle transazioni, con il superamento delle barriere geografiche, a favore di una rete globale di scambi, che sostituisce al concetto di proprietà quello di noleggio». La sociologa Ivana Pais, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (vedi intervista a pag. 28), individua tre caratteristiche fondanti della sharing economy: «La condivisione, intesa come l’utilizzo comune di una risorsa; la relazione orizzontale tra persone ed organizzazioni, in cui i confini tra finanziatore, produttore e consumatore vengono meno; c’è, infine, sempre la presenza di una piattaforma tecnologica che organizza queste relazioni digitali, basate sulla fiducia e sulla reputazione digitale».

Fattori di crescita

È a partire dal 2013 che la macchina comincia a correre, quando il traffico sulle piattaforme raggiunge livelli sufficienti a creare economie di scala, fino a diventare in alcuni casi vera e propria industria. Dal 2014 al 2015, in Europa le transazioni e i ricavi sono cresciuti rispettivamente del 97 per cento e del 77 per cento. Alcuni portali nel giro di pochi anni sono diventati dei colossi nei rispettivi settori di riferimento. Nel 2015, la piattaforma online Airbnb che mette in contatto chi ha uno spazio extra da affittare con chi cerca per brevi periodi un alloggio, con 190 Paesi coinvolti e 2 milioni di abitazioni in rete, è stata quotata 24 miliardi di euro, una valutazione addirittura superiore alla catena Marriot, che vanta circa 4mila hotel in tutto il mondo. La californiana Uber è arrivata ad essere valutata 41,2 miliardi di dollari e ora guarda ai mercati paralleli del trasporto merci. Blablacar, leader nel settore del carpooling (condivisione di auto private e di passaggi) ha ottenuto una valutazione di 1,6 miliardi di dollari, diventando uno strumento sempre più diffuso. Una crescita che appare inarrestabile e dagli esiti non scontati. Oltre che dalla demografia e dallo sviluppo delle reti digitali, in realtà molto dipenderà da una regolamentazione favorevole al settore, che potrebbe far pendere la bilancia dalla parte di un’ulteriore crescita dell’economia collaborativa, o al contrario verso un suo contenimento. «Il caso più noto in Italia è Uber: i governi cercheranno di agevolare servizi come questo, oppure cederanno alle pressioni della lobby dei tassisti, mettendo il bastone tra le ruote a Uber?», osserva Canova. Lo studio curato da Canova, dopo aver indicato l’attuale peso dell’economia condivisa (3,6 miliardi di euro pari allo 0,2 per cento del Pil), non a caso ipotizza tre scenari. Il primo è basato sull’ipotesi che a decollare sia la popolazione di utenti della sharing economy, dagli attuali 6,4 milioni ai 16,5 milioni nel 2025, quando il settore peserà 19,4 miliardi di euro. C’è quindi lo scenario più ottimista, definito di digital disruption, che ipotizza non solo l’incremento degli utenti della sharing economy (21,4 milioni nel 2025), ma anche un allargamento della popolazione di internauti in tutte le fasce, frutto potenziale degli investimenti sulle infrastrutture digitali. L’impatto dell’economia collaborativa risulterebbe pari a 25,2 miliardi di euro nel 2025.

Economia reale

Ma a questo punto è giusto forse sollevare un dubbio. E se si trattasse di una bolla? «La ricerca prova a rispondere anche a questa domanda e ipotizza, per il 2025, un valore di soli 4 miliardi di euro, dopo aver raggiunto un picco di 14 miliardi di euro nel 2019», precisa Canova. L’Italia è tra i primi Paesi ad avere messo in cantiere un disegno di legge, ora in Parlamento, che dovrebbe disciplinare il comparto dal punto di vista fiscale, che si rivela particolarmente problematico. Secondo le stime raccolte dagli estensori della proposta, dall’emersione dei guadagni in nero nel settore potrebbero già ora rientrare circa 150 milioni di euro di gettito in più per l’erario. Il Comitato europeo delle regioni lo scorso dicembre ha concluso i suoi lavori affermando che l’economia della condivisione può migliorare la qualità della vita dei cittadini, promuovere la crescita, in particolare a livello di economie locali, e ridurre gli effetti sull’ambiente. «Ma se l’economia collaborativa – precisa Canova – porterà lavoro di qualità o invece potrà determinare nuova disoccupazione tecnologica è un domanda a cui non siamo ancora in grado di rispondere. Quello che non è difficile prevedere è un progressivo passaggio dalla negoziazione alla pari a un progressivo consolidamento del settore, in cui si affermeranno sempre più soluzioni aziendali accanto a quelle di puro scambio, come nel caso di Blablacar, che si sta trasformando da fenomeno puramente collaborativo a realtà aziendale vera e propria». Il rapporto con i settori dell’economia tradizionale appare tra i più interessanti e controversi. In alcuni casi l’avvento dell’economia collaborativa li ha stravolti, come nel caso di Spotify. L’etichetta nata nel 2008 dall’omonima start up svedese ha oggi all’attivo 75 milioni di utenti (30 dei quali paganti) ed è stata tra i principali artefici del crollo di fatturato delle case discografiche: meno 40 per cento nello stesso periodo in cui il consumo di musica cresceva del 40. In altri casi, grandi gruppi hanno fiutato l’affare e stanno virando verso i vantaggi della condivisione. È il caso di Google, che sta mettendo su strada una propria flotta di auto senza conducente in condivisione, o di Amazon che sta valutando la possibilità che i clienti, in cambio di un piccolo guadagno, possano essere utilizzati come corrieri.

Sharing italy

Risparmiosa, innovativa, anticonsumistica. Ecco perché agli italiani piace l’economia partecipata.

Anche se il nostro paese non brilla per numero di start up attive nell’economia collaborativa, gli italiani sono in Europa quelli che cercano di più servizi in condivisione insieme a spagnoli, inglesi e olandesi. Ma sono soprattutto Francia e Inghilterra, seguite da Germania, Olanda e Spagna a mettere in campo il maggior numero d’imprese in questo settore. È il risultato di due distinte ricerche condotte nel nostro paese, e a livello europeo, a dare la cifra dell’impegno sul fronte dell’economia partecipata. Nella prima, in particolare, – condotta nel 2016 da Tns Italia, su un campione rappresentativo di circa mille persone – emerge come 7 intervistati su 10 fossero a conoscenza dei servizi in condivisione, mentre il 25 per cento ne aveva fatto mai uso. È interessante anche capire perché si fa ricorso all’economia collaborativa: nel 40 per cento dei casi perché si risparmia. 1 intervistato su 3 è spinto dal desiderio di un’esperienza innovativa e interessante, un altro 33 per cento per dare una risposta al consumismo. I servizi più usati? Mobilità, seguiti dal baratto e dalla condivisione degli alloggi. Permane il gap con la vitalità e la dimensione media delle nostre aziende. In Italia, secondo uno studio di collaboriamo.org e dell’Università Cattolica le start up nel 2015 erano 186 (il 34,7 per cento in più rispetto al 2014). Tra i settori più interessati, il crowdfunding, cioè il microfinanziamento dal basso per sostenere i progetti di persone e imprese, e il finanziamento tra privati, con 69 piattaforme, i trasporti con 22, i servizi di scambio di beni di consumo con 18 e il turismo con 17.

Visione d’insieme  

Luci e ombre dell’economia della collaborazione vista da Federico Capeci di Tns Italia 

«Le nostre start up hanno bisogno di sovvenzioni, capitali, interventi fiscali e normativi, copertura assicurativa che oggi non sono definiti e su cui, invece, le multinazionali possono contare. Senza, come possono contrastarne la concorrenza?». È quanto sostiene Federico Capeci, Ceo e Chief digital officer di Tns Italia, autore di una ricerca annuale sulle tendenze che riguardano la sharing economy in Italia. Grandi attori come Airbnb e Uber e start up. 

Cosa sta accadendo nel settore? «In pochi anni, l’economia collaborativa ha subito una trasformazione profonda. Non è un caso che siano proprio questi grandi attori a trainare la crescita del settore. È ancora sharing economy? Se guardiamo alla definizione originaria di questo comparto – e cioè la condivisione di un bene che si era acquistato e che poi si mette a disposizione di altri utenti –, direi di no. Dietro Enjoy, ad esempio, c’è l’Eni: un’azienda che decide di acquistare una flotta e usare la condivisione per fare profitto. Ecco, direi che siamo ben lontani dal caso di scuointervista la di qualche anno fa: perché in un condominio, ci devono essere cento trapani, quando un trapano è usato ogni cento giorni? La risposta era: ne compriamo uno e lo condividiamo». 
C’è il rischio concreto che questi grandi attori stravolgano il settore? «Io credo che entrambi gli ambiti continueranno a crescere, a patto che i governi pongano paletti chiari tra l’uno e l’altro. Alcuni governi se ne sono accorti imponendo, ad esempio, ad Airbnb di permettere l’uso della piattaforma a chi mette a disposizione un solo appartamento. In Italia siamo in ritardo. Il nostro paese registra uno sviluppo di queste attività con il freno a mano tirato. Le nostre start up non fanno il salto, anche perché spesso dietro non ci sono capitali e un modello di business gratificante. Alla lunga, la mancanza di offerta rischia di limitare la domanda». 

Cosa c’è dietro il boom della sharing economy? «Da un lato c’è la leva culturale: la ricerca di un consumo sostenibile che con la crisi è diventato consumo intelligente. Dall’altra c’è un elemento di socializzazione. Non basta più il consumo di un prodotto, ma diventa importante l’esperienza che il consumo porta con sé». 
Cosa vede nel futuro dell’economia collaborativa? «La prossima frontiera, a mio avviso, sarà quella della condivisione di beni e servizi tra imprese. Perché non condividere, ad esempio, il direttore del marketing? Scenario futuristico, ma possibile».

Grado di partecipazione

Le sfide della sharing economy  in Italia, tra problemi normativi e di finanziamenti. Ne parliamo con Ivana Pais, sociologa e animatrice di Sharing Italy 

«Le nostre start up sono numerose e molto attive, ma faticano a raggiungere dimensioni tali da creare un vero giro d’affari. Un dato che stride con la propensione degli italiani a rapportarsi con l’economia collaborativa. Per fare un esempio, oggi l’Italia è il terzo mercato per utenti di Airbnb e tra quelli che usano di più un servizio come Blablacar». Cattedra di sociologia economica presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, Ivana Pais è animatrice di Sharing Italy il principale evento italiano in materia, in programma nel capoluogo lombardo il 15 e 16 novembre.

Quali sfide attendono la sharing economy nel nostro paese? «La prima è quella di mercato: le nostre aziende continuano a essere troppo fragili e piccole per incidere, penalizzate dalla scarsità delle fonti di finanziamento. C’è però una nota positiva: molte hanno un taglio sociale e culturale, e questa specificità rispetto alle omologhe straniere potrebbe giocare un ruolo importante. Con casi interessanti, come Gnammo, il servizio che permette a chi ama cucinare di mettere a disposizione la propria tavola per intervista condividere una cena. La seconda riguarda il quadro normativo».
Cosa pensa del disegno di legge allo studio in Parlamento? «Credo ponga paletti significativi, come il marcare la differenza tra gli utenti che usano servizi in modo professionale e chi lo fa ogni tanto, in modo amatoriale. Attenzione, però, a non usare lo stesso criterio per gli uni e per gli altri: giusto che chi guadagna venga tassato, ma evitiamo di penalizzare le imprese sul nascere».

Come vede in futuro il rapporto con l’economia tradizionale? «A mio avviso ci sarà una relazione di complementarità. Vedremo l’impresa classica aprirsi anche ai servizi di condivisione, con questi ultimi che tenderanno a completare l’offerta per i consumatori».
C’è il pericolo che pochi grandi attori monopolizzino i comparti di riferimento? «Il rischio c’è. È insito nella natura stessa delle piattaforme digitali, che devono fare grandi volumi di traffico per diventare remunerative. Ma penso che alla lunga, in un settore basato sull’innovazione, il monopolio non regga. Arriveranno altre piattaforme in grado di rosicchiare quote di mercato. E lo potranno fare alzando l’asticella, e migliorando la logica di servizio».
Crede che la sharing economy influenzerà anche il mondo della Grande Distribuzione? «Penso che al momento sia difficile. Ci sono problemi legati alla distribuzione e alla logistica. Un conto è andare al supermercato, un altro scambiare beni tra utenti».