Spirito di conservazione - Terre di Garfagnana

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5 Agosto 2016
Verdure di prima qualità lavorate a mano e conservate sottolio per arrivare sulle tavole fresche e saporite, col marchio La Garfagnana.
di Eleonora Cozzella

Avete presente quella pubblicità in cui si vedono i contadini raccogliere gli ortaggi, che poi sono lavorati da casalinghe e si tende a fidarsi di più del prodotto perché ha un aspetto artigianale? Poi però la realtà è che sono prodotti industriali e le verdure sono toccate solo da macchinari. Ecco, la cooperativa La Garfagnana invece non ha doppie facce. Ci sono cinque ragazze (un po’ di più quando d’estate s’intensifica la produzione di confetture con la frutta di stagione), impegnate a lavare e tagliare prodotti dell’orto e sono il simbolo di come l’economia locale possa farsi virtuosa e coniugare occupazione femminile, grande qualità della materia prima, salvaguardia dell’ambiente.

Farro del vincitore

La cooperativa è nata a metà degli anni Novanta per iniziativa di un gruppo di soci che scelsero di mettersi insieme per recuperare i terreni e le antiche colture del territorio. L’inizio di tutto è stato il farro. «Abbiamo cominciato con questo cereale – spiega il presidente Lorenzo Satti – perché è un prodotto rappresentativo della Garfagnana su cui anche la comunità montana e diversi enti locali avevano deciso di scommettere». L’intuizione è stata giusta e la scommessa vinta, tanto più che poi è arrivata anche la certificazione Igp, indicazione geografica tipica per questo grano antico che oggi è apprezzato anche sui mercati internazionali. E a poco a poco, per assecondare i ritmi della natura e valorizzare anche i piccoli appezzamenti di terreno, gli orti familiari, i micro frutteti casalinghi, la cooperativa ha inaugurato altre linee. Sono stati aperti un piccolo, ma ben attrezzato, laboratorio e l’impianto di trasformazione dove si preparano sia le confetture (in particolare dei frutti del sottobosco e quelle famose di fichi) secondo le vecchie ricette delle famiglie della zona, sia i gustosi sottoli che ci riportano ai tempi delle conserve, quando frutta e verdura non si trovavano al supermercato 12 mesi all’anno.

L’arte del vetro

Già perché il cibo sotto vetro ha una sua poesia, che riporta ai pomeriggi di bambini ad aiutare le donne di casa a far conserve, per poi riaprire a distanza di mesi quelle bontà in scatola e annusare il ricordo dell’estate. Una storia lunga oltre 200 anni. All’inizio fu il tappo di sughero a chiudere una bottiglia di vetro dal collo molto largo. Vennero poi i tappi di latta e altri successivi miglioramenti per sigillare in modo ermetico recipienti di vetro. Il metodo per riuscire a confezionare i cibi in contenitori al fine di conservarli a lungo nasce ufficialmente nel 1810 con il cuoco francese Nicolas Appert, premiato da Napoleone Bonaparte in persona per aver risolto l’annosa questione: è possibile allungare la vita alle derrate alimentari dell’esercito? I suoi studi, raccontati poi nel libro Art de conserver, avevano codificato il processo: introdurre gli alimenti già lavorati nelle bottiglie, chiudere con tappi di sughero, immergere in acqua bollente per tempi variabili in base al tipo d’alimento, raffreddare. L’invenzione che ha rivoluzionato la possibilità di allungare la vita degli alimenti (per secoli gli unici prodotti a lunga conservazione erano solo salati, affumicati o essiccati) si fondava sulla semplice constatazione che l’alta temperatura ne rallentava i processi decompositivi.

Verde pomodoro

La differenza è ciò che ci si mette dentro. Per questo è bello sapere che a La Garfagnana chi si occupa dei sottoli ha un nome e un cognome. E tanto entusiasmo per il proprio lavoro. Per esempio, abbiamo parlato con Simona Sarti, che lavora per la cooperativa da 10 anni e si occupa della contabilità, e ci ha spiegato come preparano queste bontà sotto vetro. «Tra i fiori all’occhiello della linea – racconta – ci sono i pomodori verdi sottolio. L’idea è nata qualche anno fa in funzione anti spreco. Ai nostri produttori di solito gli ultimi pomodori di fine stagione restavano acerbi sulla pianta. Ci sembrava un peccato doverli buttare, ma non avrebbero mai avuto la possibilità di maturare». Ecco allora l’illuminazione. «Sono di solito canestrini o il tipo San Marzano o altri coltivati dai soci. Arrivano in laboratorio belli sodi e polposi, con la buccia spessa il giusto per resistere al tipo di lavorazione. Sono tagliati a rondelle, poi fanno un passaggio sotto sale per cedere un po’ di liquidi in eccesso, e uno sotto aceto, con funzione di insaporitore ma anche di sterilizzazione. Quindi sono scolati e messi sottolio di oliva in un battuto di odori », spiega nel dettaglio Simona. Un procedimento abbastanza delicato e lungo che richiede 5 giorni. E infatti si tratta di un prodotto di nicchia, sia per la particolare lavorazione, sia per le quantità davvero esigue. Stiamo parlando di appena 2 o 3 quintali l’anno. Ne risulta un prodotto sapido e un po’ asprigno, perfetto per accompagnare carni bollite e alla griglia. Sempre in olio d’oliva finiscono anche i peperoni e le zucchine, rigorosamente coltivati nel territorio. I peperoni, gialli e rossi per un bell’effetto cromatico nel vasetto, e le zucchine, quelle piccole, più tenere e dolci, lavate, asciugate e tagliate a mano. I peperoni a quadretti, le zucchine a listarelle. Dopo una scottatura in acqua e aceto, finiscono sommerse d’olio pronte ad arrivare sulle nostre tavole, per arricchire insalate e antipasti all’italiana, condire bruschette o impreziosire zuppiere di riso freddo.