Correva l’anno 1974. E la Monsanto, società nata nel 1901 a St. Louis, Missouri, nota soprattutto per la produzione di ogm, tirò fuori dal cilindro la parola magica che avrebbe dovuto mettere d’accordo in un colpo solo diserbanti e tutela dell’ambiente: glifosato, sostanza biodegradabile e non nociva per l’ambiente, assicuravano dalla società americana produttrice del Roundup che lo contiene e che ne fa il pesticida più venduto al mondo. Invece per molti agricoltori le tracce nel terreno ci sono, persino in quelli a coltivazione bio dove non viene usato. Così, in vista del 30 giugno, giorno della scadenza dell’autorizzazione per l’utilizzo in Europa nei prossimi 15 anni, si è scatenata una vera e propria bagarre al punto che la Commissione europea – che avrebbe dovuto decidere già nel 2012 – è rimasta paralizzata fino ad oggi.
Erbicida di casa mia
Era il novembre scorso quando l’Efsa, acronimo per European Food Safety Authority, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha reso pubblica una ricerca nella quale ritiene “improbabile che il glifosato sia genotossico (cioè che danneggi il dna, ndr) o che rappresenti una minaccia di cancro per l’uomo. Un’enorme divergenza di valutazioni con ambienti importanti della comunità scientifica: appena 8 mesi prima l’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), Iarc, aveva classificato come “probabilmente cancerogeno” l’erbicida, mentre 96 scienziati di diversi paesi hanno chiesto al Parlamento europeo di non prendere in considerazione il parere dell’Efsa, risultato – accusano – di un procedimento non trasparente e basato su documenti secretati. Per cominciare, non tutti gli esperti sono stati d’accordo con il parere di non cancerogenicità. Uno di loro si è astenuto ritenendo il glifosato sospetto cancerogeno. Dall’Efsa hanno spiegato che hanno esaminato il pesticida soltanto come principio attivo mentre l’Oms l’ha considerato anche come ingrediente di alcuni prodotti in commercio. Inoltre hanno aggiunto di essersi basati su alcuni studi sui roditori che sarebbero stati assenti dal materiale esaminato dall’Oms. Ma in molti puntano il dito proprio contro quegli studi – mai pubblicati –, accusati di parzialità e, anzi, di essere finanziati dall’industria agrochimica e forniti dalla stessa Monsanto per conto di una rete di industrie, la Glyphosate Task Force. La decisione dell’Efsa si sarebbe basata su una ricerca del Governo tedesco e, in particolare, del Bunderinstitut für Risikobewertung, l’Istituto Federale per la valutazione dei rischi, ricerca adattata da uno studio della Gtf, ovvero dell’industria agrochimica e assunto dall’Efsa senza ulteriori verifiche. Con la società di St. Louis a fare da punto di contatto tra il network di imprese e le autorità di regolamentazione. Richard Garnett, per citare solo il caso più noto, a capo della Gtf, ha lavorato alla Monsanto occupandosi proprio delle procedure regolamentari.
Conflitto d’interesse
Non è la prima volta, del resto, che l’Agenzia finisce al centro di discutibili conflitti di interesse. Due anni fa una risoluzione del Parlamento europeo, a proposito della prevenzione e gestione dei conflitti d’interesse, ritenne “la procedura dell’Autorità per la valutazione di eventuali conflitti d’interesse (...) onerosa e opinabile dando adito a interrogativi circa la sua credibilità ed efficacia”. Il braccio di ferro tra Commissione e Parlamento, dunque, continua. L’europarlamentare Paolo De Castro (Pd-S&D), da parte sua, dichiara di aver «apprezzato la scelta della Commissione europea di posticipare ogni decisione sul glifosato fino a quando non ci saranno ulteriori evidenze scientifiche sugli effetti del suo utilizzo. Rimaniamo in attesa di ulteriori indagini scientifiche – aggiunge De Castro – e, nel caso dovessero emergere potenziali rischi, confermeremo la nostra contrarietà alla proroga del suo impiego». Anche il mondo degli agricoltori non è compatto. «Prima di togliere l’autorizzazione a un erbicida come il glifosato servono certezze scientifiche – commenta il presidente di Confagricoltura Mario Guidi –, altrimenti si crea solo un danno ai produttori e all’ambiente. Sappiamo bene di andare controcorrente ma siamo consapevoli che l’eliminazione del glifosato, non supportata da motivi fondati, comporterebbe l’utilizzo di altre molecole a volte più invasive a livello ambientale, oltre a ridurre ulteriormente la competitività dell’agricoltura italiana. Confidiamo quindi che vi siano valutazioni ulteriori, auspicando il coinvolgimento del comparto agricolo». Mentre altre realtà mettono sotto accusa il modello di produzione e di sviluppo agricolo di cui i pesticidi sono soltanto la parte più evidente.
Fuori controllo
Dal Tavolo delle organizzazioni dell’agricoltura biologica, ambiente, tutela del territorio e consumatori partono all’attacco: «Lavoriamo su due piani, quello europeo e quello nazionale – ricorda la portavoce Maria Grazia Mammuccini –. In particolare, il glifosato nel nostro paese è inserito nel Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari. È importante, invece, che l’erbicida sia tolto dai disciplinari di produzione dei Programmi regionali per lo sviluppo rurale evitando di premiare le aziende che lo utilizzano ». E Daniela Sciarra di Legambiente sottolinea che «il problema è quello di garantire più controlli per la sicurezza alimentare sulla tracciabilità delle filiere alimentari dove viene usato il glifosato». Come gli acquedotti, per esempio, per i quali non esistono norme che rendano obbligatori specifici controlli. Così, può accadere che nelle acque italiane si trovino 224 pesticidi con una “contaminazione diffusa e crescente”, come denuncia il Tavolo che ha dato vita alla campagna #StopGlifosato. Del resto i dati del Rapporto pesticidi nelle acque Ispra 2016 relativi agli anni 2013-2014 dimostrano che il glifosato e il suo derivato ampa sono presenti nelle acque italiane con percentuali, rispettivamente, del 39,7 e 70,9. «È inammissibile un livello di contaminazione di questa portata per una sostanza dichiarata probabile cancerogeno per l’uomo – dichiara Mammuccini –. Tutto ciò rafforza la nostra battaglia contro il rinnovo dell’autorizzazione a livello europeo» mentre l’Associazione – che ha stretto una collaborazione con l’organizzazione on line Avaaz – ha chiesto un incontro al ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina per la messa al bando del glifosato, forte di un milione e 400mila firme in calce alla loro petizione. Intanto, appuntamento al 30 giugno, quando il viaggio che porta all’autorizzazione o meno del glifosato terminerà e, se l’autorizzazione al suo uso non sarà rinnovata, decadrà.
Prova di concentrazione
Dalla pasta ai biscotti, dalle farine all’acqua: il pesticida chiamato glifosato è un po’ dappertutto.
Ne parliamo con Riccardo Quintili, direttore de “Il Test - Salvagente” che ha illustrato i risultati di alcune analisi italiane.
Nell’ultimo numero della rivista “Il Test - Salvagente”, è uscito un ampio servizio sul glifosato, corredato di analisi su decine di prodotti e sulle acque pubbliche, dal quale emerge un quadro preoccupante circa la diffusione di questo pesticida definito dallo Iarc “probabile cancerogeno”. Ne parliamo con il direttore del mensile Riccardo Quintili che ci racconta dove hanno trovato questa sostanza e ci dice perché bisogna intervenire rapidamente su una legislazione lacunosa che ancora non obbliga gli acquedotti a cercare il glifosato nelle analisi di routine.
Sul glifosato gravano pesanti dubbi riguardo la sua tossicità. Ma quali sono in realtà i capi d’accusa nei suoi confronti?
«Il capo d’accusa è terribile ed è sintetizzato nella definizione della Iarc, l’Agenzia dell’Organizzazione mondiale della salute per la ricerca sul cancro: “probabile cancerogeno”. In particolare è emersa una forte correlazione tra l’impiego di glifosato e il linfoma non-Hodgkin, e forti sospetti riguardanti la genotossicità, ossia la capacità di danneggiare il dna. Se così fosse – e purtroppo nella storia non c’è mai stato un caso che abbia smentito le classificazioni della Iarc – saremmo di fronte all’uso di una sostanza pericolosa in quantità impressionanti. Mai nessun pesticida, infatti, è stato cosparso in maniera così vasta nella storia».
La tua rivista ha testato decine di prodotti, su alcuni dei quali sono stati trovati residui di questo pesticida.
Ci puoi dire quali sono i cibi più a rischio di contaminazione?
«Il nostro lavoro ha riguardato i prodotti a base di grano: farine, prodotti per la prima colazione, pasta. La ragione della nostra ricerca era precisa: capire se l’uso di questo erbicida porti a residui che arrivino sulle nostre tavole. Anche in considerazione del fatto che negli Usa e in Canada, da dove proviene parte della farina che importiamo, è diffuso l’uso di glifosato secondo la tecnica del preharvest, ossia viene spruzzato sulle piante poco prima della raccolta per facilitare l’essiccazione. Per tornare alla tua domanda, è difficile dire quali siano i cibi più a rischio. In Italia abbiamo trovato residui nei prodotti a base di grano, in Germania e Svizzera sono stati misurati nelle birre, negli Usa nel miele e in Argentina hanno trovato glifosato perfino nelle garze sterili, mentre in Francia è stato scoperto negli assorbenti. Credo che sarebbe il caso di considerare che la sua presenza è pressoché dappertutto».
Quali prodotti sono risultati contaminati e in che misura oltre i limiti di legge?
«Abbiamo trovato un campione di fette biscottate, uno di corn flakes, 2 farine e 8 paste contaminate. In nessun caso sono stati superati i limiti di legge, dunque i prodotti potevano essere venduti senza alcun problema dalle industrie. C’è, però, da dire che la legge è molto lacunosa dato che non tiene conto ancora delle conclusioni a cui è arrivata la Iarc e fissa per i prodotti finiti gli stessi tetti validi per la materia prima. Con differenze difficili da comprendere. Facciamo un esempio: per il frumento (e dunque per la pasta) il limite è 10 mg/kg, per altri cereali come il riso è 100 volte inferiore (0,1). Perché? Se il glifosato fa male perché dovrebbe far male 100 volte meno a chi mangia spaghetti rispetto a chi porta in tavola un piatto di riso?».
Anche l’acqua purtroppo non sfugge al rischio di contaminazione da glifosato. Dove avete trovato le concentrazioni più elevate?
«In 2 paesi del Nord: Campogalliano (in provincia di Modena) e Brusnengo (in provincia di Biella). E qui abbiamo misurato concentrazioni superiori al limite di legge. La cosa sconvolgente, però, è stata la risposta degli acquedotti che, legittimamente, hanno confessato che non lo cercano, dato che non fa parte delle sostanze che le norme impongono di analizzare. È un buco clamoroso della nostra legislazione che deve essere cambiato al più presto, introducendo controlli obbligatori».
Come si può uscire dall’uso di questo prodotto in agricoltura?
«Cambiando, anche, il modello di agricoltura e di consumo. Per esempio, rinunciando agli ogm (che, detto per inciso, utilizzano più del 45 per cento degli 826 milioni di tonnellate di glifosato irrorate ogni anno nel mondo) e a un’agricoltura intensiva che prometteva di sfamare il mondo, ma che serve solo agli interessi di pochi big, come è ormai chiaro. Non credo che la strada sia tornare alle pratiche preindustriali, ma forse sarebbe bene non dare per scontato che la chimica sia sempre un progresso e chi chiede controlli sia, nel migliore dei casi, un sognatore che non ha i piedi per terra. A meno di non volerci trovare a pagare i danni di una visione tanto limitata, come abbiamo fatto tante volte, con l’amianto, il ddt, l’atrazina... L’Europa gli anticorpi li dovrebbe avere, dato che dal 2000 ha adottato il principio di precauzione che prevede che di fronte a un dubbio ragionevole per la salute una sostanza sia vietata fino a prova contraria. Sarebbe il caso di non sacrificarlo in nome degli interessi di pochi, magari immolandolo sull’altare dei trattati di libero scambio ».
(A.B)