I soci donano i loro punti fedeltà, la Cooperativa li monetizza, li raddoppia nel loro valore e sostiene le onlus che gestiscono i progetti umanitari raccolti sotto la sigla Basta un gesto. Non c’è modo migliore, per capire l’importanza di ciò che parte da una semplice donazione, che andare a scoprire cosa viene fatto di anno in anno in modo concreto.
Dedicato ai bambini
Quest’anno ce n’è uno in più nella grande famiglia dei bambini sostenuti a distanza grazie al contributo di Unicoop Tirreno con Cuore di Coop. Sono adesso 172 e vivono in Ruanda, Sierra Leone, Kenya, Uganda, Ecuador e Giordania, e potranno permettersi la prospettiva di una vita migliore attraverso l’Avsi , la fondazione che segue nel mondo oltre 20mila bambini nella crescita. «È un rapporto duraturo quello che ci lega a Unicoop Tirreno – dice Matteo Pontini, responsabile di Avsi – e che negli anni ci ha permesso di far crescere tanti bambini. Diamo loro la possibilità di frequentare la scuola, avere a disposizione il materiale didattico, mangiare in modo sano. Abbiamo degli operatori locali che si preoccupano di avere un approccio personalizzato con ciascun bambino, occupandosi della sua inclusione sociale e promuovendo le competenze per far sì che l’aiuto arrivi a quante più persone possibile, in primis ai familiari». Fondamentale il monitoraggio a cui Avsi sottopone i vari aspetti del progetto di Sostegno a distanza anche attraverso la comunicazione: ogni bambino, per 2 volte l’anno, scrive della propria esperienza, così come i “comunicatori” di Avsi che scrivono dei report su tutto il percorso di crescita. Ed è una bella soddisfazione ricevere di tanto in tanto una foto con il sorriso di un bambino che va a scuola.
Nonostante tutto
Isidore Amavi, referente del Movimento Shalom per il progetto che Unicoop Tirreno, ha avviato a Lomé, in Togo, La Casa di Giacomo e Vanda, quest’anno è scoraggiato. Nel centro di formazione cooperativa a settembre non è stato possibile riaprire le scuole per problemi burocratici creati dal Governo nazionale. Un fulmine a ciel sereno per il centro che vede così venire meno la possibilità di aiutare e formare tanti bambini, che spesso si trovano senza genitori, e per le insegnanti che si ritrovano senza il posto di lavoro. «Il centro funziona ancora – specifica Amavi – grazie al panificio: qui sono attivi i 12 panificatori che abbiamo formato, ma i problemi non mancano. Abbiamo raggiunto la produzione di 100mila pani al mese, ma con l’aumento del prezzo del grano si è ridotto molto il nostro guadagno. La crisi incombe anche sulle prospettive di produrre cereali, mais, arachidi e fagioli perché dobbiamo autofinanziarci e il peso economico è davvero grande». Come in ogni momento di crisi, si stanno valutando dei piani per superare le difficoltà: «Abbiamo aperto un’aula informatica e attivato un corso in lingua tedesca – conclude Amavi –. Comunque sia, noi ripartiamo sempre dai ragazzi e dalla loro formazione».
Sentirsi a casa
A Gorom Gorom, in Burkina Faso, è presente da 20 anni un bell’esempio di cooperazione internazionale di Unicoop Tirreno e Movimento Shalom, che portano avanti Casa Matteo, un centro polifunzionale con una sala parto e un centro maternità. In Burkina la situazione geopolitica è ancora molto incerta, nonostante gli sforzi dell’attuale Governo per riprendere il controllo dei territori attualmente in mano alle formazioni jihadiste. Permane la situazione drammatica della popolazione sfollata che ha abbandonato i villaggi, minacciati dai terroristi, e si è accampata nelle cittadine più grandi. Mancano cibo e soprattutto acqua e gli aiuti umanitari hanno difficoltà a arrivare fin qui. A Casa Matteo la situazione è comunque tranquilla: «All’inizio dell’anno erano presenti 16 bambini e di questi 4 sono rientrati nelle famiglie d’origine – afferma Lia Burgalassi, referente di Unicoop Tirreno per il Progetto Matteo –. Dei 12 rimasti, 6 hanno meno di 1 anno e 6 frequentano la scuola primaria. La struttura presenta alcuni problemi e sarebbe necessario provvedere a opere di manutenzione».
Gli “invisibili”
A Vittoria, nel ragusano, terra di braccianti agricoli nella quasi totalità immigrati, è attivo un ambulatorio stabile, avviato dall’équipe di Emergency e adesso, con il supporto dell’azienda sanitaria, assicura la presenza di 2 medici per 4 giorni alla settimana. «Emergency fa un’opera di affiancamento al lavoro medico, con un supporto sia culturale che psicologico – racconta Ahmed Echi, coordinatore del Progetto Migranti attraverso il quale negli ultimi 3 anni sono state erogate più di 20mila prestazioni –. Seguiamo tantissime donne, che subiscono violenza domestica o che sono in gravidanza, scappate dai centri di accoglienza. Nell’ambulatorio vengono accolti tutti quei lavoratori che sono sfruttati da un capolarato qui molto presente: si tratta di gente che lavora dalle 8 alle 10 ore al giorno per 20-30 euro e 7 giorni su 7. Arrivano da noi ragazzi provenienti da Zambia, Senegal, Marocco, Tunisia, che lavorano nelle serre senza alcun tipo di protezione e si ritrovano con malattie gravi. Uno di questi è affetto da tubercolosi, ma vuole continuare a lavorare, rifiuta i controlli medici perché deve inviare i soldi a casa, tantomeno vuole denunciare la sua situazione all’ispettorato del lavoro». Emergency in provincia di Ragusa opera anche con una clinica mobile, che viaggia nei territori dove manca tutto. «Per esempio – continua Echi – Marina di Acate è un covo di persone “invisibili”: qui per 2 volte alla settimana facciamo ambulatorio infermieristico e assistenza psicologica. Vivono in case fatiscenti con teli di plastica al posto dei tetti, senza servizi igienici e usano le cassette di frutta come letti. Si ritrovano con malattie legate alle loro condizioni di vita, come asma, scabbia, dermatiti causate dal lavoro nelle serre».