Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei? Oppure dimmi chi sei e ti dirò cosa mangi? O ancora, dimmi cosa non mangi e capirò chi sei? Quesiti per niente banali, perché il segno d’appartenenza dell’uomo di oggi sembra proprio essere il cibo che mette nel piatto. Da secoli parte integrante dell’identità di popoli e nazioni, è più che mai al centro di una rinnovata attenzione e del dibattito quotidiano. Viviamo nell’era dei cuochi che imperversano sugli schermi Tv e dei social media che sfornano continui allarmi su alimenti che all’improvviso qualcuno scopre essere pericolosi e dannosi. Ovviamente agli allarmi si abbinano “scoperte” di altri prodotti che sono, invece, dei toccasana in grado di allontanare malanni e problemi. Da qui la sempre più diffusa ricerca di un benessere che spesso rischia di trasformare in cura medica ciò che prima era piacere, sapore e tradizione. Ma stanno davvero così le cose? E che posto occupano gli italiani a questa “tavola di confronto”?
Italian style
Nello spettro che va dalla difesa della tradizione alla sperimentazione di nuovi e più marcati stili alimentari (basta pensare ai vegetariani), ecco la fotografia di un paese che il cibo l’ha sempre amato e considerato scattata da italiani.coop (www.italiani.coop.it), il sito che produce analisi e approfondimenti sui mutamenti della società italiana.
A un campione di oltre 7mila persone è, infatti, stato chiesto di dichiarare quale è (se ce n’è uno) lo stile alimentare seguito tra 7 opzioni diverse. Il campione comprende persone tra i 18 e i 65 anni e dunque non i giovannissimi e la fascia più anziana della popolazione. Tolto un 19,3% che si chiama fuori, dicendo che la sua alimentazione non ha un’etichetta e uno stile costante e coerente, si scopre che a dichiararsi seguace della tradizione (esattamente “tradizionalisti puri”) è un 33,3% del campione. È il gruppo di gran lunga più numeroso, quello che segue fedelmente ciò che la famiglia gli ha tramandato tra piatti di pasta e altri simboli del Belpaese a tavola. Niente di sorprendente, semmai vista appunto la forza della tradizione culinaria italiana, ci si poteva aspettare qualcosa di più. Al secondo posto, con il 12,2% stanno i low cost, cioè chi dice che il suo stile a tavola è condizionato dalla ricerca della convenienza, piuttosto che dal tipo di alimenti.
Segno evidente che la crisi economica non ce la siamo lasciata ancora alle spalle.
Senz’altro
C’è poi un raggruppamento di 3 diverse tipologie di profili che, per motivi come vedremo abbastanza evidenti, costituiscono un unico polo orientato all’innovazione, al superamento della tradizione in un legame molto forte con gli aspetti salutistici, del benessere e anche di attenzione all’ambiente. Queste 3 tipologie comprendono innanzitutto i “senza”, cioè coloro che privilegiano una dieta centrata sull’essere priva di latte e dei suoi derivati e senza glutine (11,3% del campione). Una quota sicuramente molto più consistente di chi è realmente allergico o intollerante verso queste sostanze.
È bene comunque ricordare che la platea dei potenziali “senza” non si ferma certo solo a latte e glutine: ci sono, infatti, anche i “senza uova”, “senza grassi”, “senza olio di palma” e i tanti altri “senza” che sempre più spesso campeggiano sulle etichette, al punto che alcuni studiosi, come l’antropologo Marino Niola, docente all’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli , hanno osservato che ormai «siamo ciò che non mangiamo».
Poi ci sono, con un 9,6%, i biosalutisti, che mettono nel carrello prodotti biologici e naturali, perché attenti almodo con cui un prodotto viene coltivato e lavorato, salubrità e sostenibilità ambientali tutte in uno. Seguono vegetariani e vegani con l’8,3% che più di altri hanno attirato l’attenzione nel dibattito pubblico – a volte per i toni un po’ estremi di alcuni –, anch’essi animati da motivazioni che tengono insieme aspetti etici (il rispetto della vita animale), di attenzione a salute e benessere e il rispetto per l’ambiente.
Sotto ogni profilo
Questi 3 gruppi messi insieme fanno poco meno del 30% del campione complessivo, rappresentando la consistente avanguardia che ha deciso di lasciare i lidi della tradizione in cerca di qualcosa di nuovo. Ed è sicuramente la voglia di sperimentare che accomuna queste persone, al punto che, come spiega il responsabile della ricerca e direttore generale di Ancc-Coop Albino Russo (vedi l’intervista sotto), sarebbe sbagliato fissare questi gruppi in identità rigide: «Molte di queste persone non si identificano in uno solo dei profili che abbiamo proposto, ma prendono elementi da più parti. È un pezzo di società che ha avviato un percorso di ricerca del cambiamento e lungo questo percorso ha incrociato anche il tema cibo. Siamo in un mondo in cui si parla di trend setter, cioè coloro che indicano e anticipano le tendenze e le trasformazioni.
Ebbene io direi – sottolinea Russo – che non sono i trend setter a essere vegani, ma viceversa. Nel senso che queste persone sono dentro a un percorso più ampio e non fondato solo sul cibo. Un percorso che riserverà altre sorprese e novità nel suo definirsi nel corso del tempo». A completare la nostra panoramica manca un ultimo gruppo, che vale il 6% del totale: gli iperproteici, quelli che, pur non essendo lontani dalla tradizione, comunque puntano su uno stile alimentare che abbonda nel consumo di carne e di altri alimenti guardati con sospetto dai più salutisti. Del resto, vedendo il successo di locali che giocano tutto su bistecche, costine e salsicce, anche la presenza di questo segmento non è certo una sorpresa.
Maschi contro femmine
Dunque ecco le nostre tribù del cibo, in altre parole dimmi che cosa mangi e ti dirò come vedi e come vorresti il mondo. E, infatti, se si guarda all’insieme, la fotografia mostra che un terzo delle persone è ancorata alla tradizione, un altro terzo sceglie di innovare sulla base di una serie di valori e di una sensibilità abbastanza simili e un ultimo terzo sceglie di non identificarsi, oppure dice che è la dimensione economica e di prezzo a condizionare le sue scelte. Se poi si va a guardare trasversalmente dentro ai vari gruppi vengono fuori altri aspetti che meritano di essere considerati. Innanzitutto che sono le donne le più propense a sperimentare e innovare, quelle più attente alla salute. Nei tre gruppi vegetariani-vegani, biosalutisti e “senza” prevalgono nettamente (con percentuali tra il 57% al 65,7%), rispetto a un campione complessivo che è invece paritetico (50,1% maschi e 49,9% donne). Al contrario gli uomini primeggiano tra i tradizionalisti e tra gli iperproteici, mentre le donne tornano a svettare tra le risparmiatrici, forse perché sono quelle che fanno più spesso la spesa e prestano più attenzione al prezzo. Leggendo i risultati dell’indagine in base all’età, si scopre che innovatori e salutisti sono i più giovani, soprattutto dai 23 ai 35 anni, mentre i tradizionalisti primeggiano dai 45 in su. Non proprio una sorpresa, mentre sorprende di più che non ci siano differenze geografiche degne di nota. Se, infatti, qualcuno pensava che al sud e nelle isole quelli più legati alla tradizione dovessero primeggiare scoprirà che non è così.
Anzi, seppure con scarti lievi, la tradizione piace di più nel nord-est e nelle regioni del centro.
Costumi e società
Alcuni aspetti dell’indagine di italiani.coop approfonditi dal suo responsabile Albino Russo
«L’ampia indagine che abbiamo realizzato – spiega Albino Russo, direttore generale di Ancc- Coop e coordinatore delle attività di ricerca di italiani.coop – oltre alle preferenze alimentari, cerca di indagare gli stili di vita degli italiani. E quel che emerge è la conferma di un cambiamento profondo che già da tempo vedevamo profilarsi. Il cibo per noi è sempre stato identità, è sempre stato fortemente legato a tre idee fondamentali: famiglia, territorio, tradizione. Con la società dei consumi questa triade ha avuto un’evoluzione perché alla mamma si sono uniti il valore e il legame con la marca, penso a un simbolo dell’italianità come Barilla, e il negozio, e qui penso a Coop che è l’impresa leader in Italia. Era l’insieme di questi riferimenti che per diversi anni ha orientato le scelte. Nell’ultima fase – continua Russo – penso all’influsso del web e dei social, penso a una consapevolezza e un’attenzione che sono cresciute su molti temi, ci sono state delle rotture e si è fatta strada la voglia di cambiare degli italiani, mettendo in crisi la tradizione come unico e rassicurante riferimento».
Dunque, dalla vostra indagine che fotografia viene fuori dello stile alimentare degli italiani?
«È uno stile più composito. Certo chi sceglie la tradizione rappresenta ancora la quota più importante, che vale circa un terzo del totale. Ma questo dato non può certo essere una sorpresa. Poi ci sono quelli che sono condizionati da problemi economici e dunque privilegiano la ricerca del prezzo più basso. Diciamo che sono persone per le quali il cibo è meno importante perché lo considerano solo il carburante per il corpo. Anche se il tema prezzo condiziona comunque tutti i diversi profili che abbiamo tracciato».
Poi ci sono quelli che hanno scelto di uscire dalla tradizione.
«Sì. C’è una parte del campione che ha scelto di battere strade diverse e in larga parte nuove. Anche quelli che abbiamo chiamato iperproteici (6%) che, pur restando vicini alla tradizione, vanno oltre consumando carne in abbondanza. Invece il 30% composto da vegetariani, biosalutisti più coloro che puntano sul rinunciare a determinati alimenti sono un nucleo abbastanza omogeneo anche da un punto di vista socio-demografico. Sono un’avanguardia, con una prevalenza della componente femminile, che dentro a un percorso di ricerca si è domandata quale cibo mettere nel piatto».
Da questi spunti si possono trarre considerazioni generali sul nostro paese?
«L’Italia è un paese che ha voglia di cambiare. Ma sarebbe sbagliato pensare che siamo di fronte a un processo concluso. Domani potremmo scoprire altre novità, le categorie che abbiamo provato a descrivere a proposito del cibo sono flessibili, non sono rigide. Dentro ai vari gruppi, la quota di chi ha un approccio rigido e ideologico è ridotta, anche se spesso il meccanismo dei social rischia di amplificare a dismisura certe voci. Invece la gente ha voglia di sperimentare, cerca ciò che le piace e soddisfa le sue esigenze. Altrimenti si rimette in cammino e cerca nuove soluzioni».
Del gusto si discute
La ricerca identitaria di senso passa anche dal piatto.
Parola di sociologa. R.N.
Gli abitanti del Belpaese sono tradizionalisti, è risaputo e lo confermano dati recenti. Ma sempre più persone fanno scelte alternative. A un certo punto qualcosa nel piatto è successo. «Mi chiede quando sono cominciati a cambiare gli stili alimentari degli italiani e perché? In realtà si tratta di una storia lunga, in continua evoluzione. Sappiamo, ad esempio, che quanto oggi è considerato tradizionale, qualche secolo fa costituiva un’innovazione che veniva da fuori – fa notare Carla Collicelli, sociologa del welfare e della salute, ricercatrice senior associata CNR-ITB Roma –. È certo che dall’epoca moderna in poi i cambiamenti sono diventati più rapidi e importanti. In particolare da cinquant’anni, tra boom economico, sviluppo dei commerci e dei trasporti, turismo e rivoluzione nel mondo della comunicazione e della circolazione delle idee, si è determinata una situazione che studi sociologici di settore definiscono “onnivora”: oltre a mangiare di più, si mangia di tutto, si desidera sempre più spesso provare cibi provenienti da paesi diversi e si mangia anche in contesti sociali diversi, non più solo a casa o al ristorante, nelle grandi occasioni, ma anche per strada o nel centro commerciale ». E il cibo che scegliamo sembra dire molto di noi, quasi un nuovo modo di fare “politica” e di dire la nostra sul mondo: vegetariani, fruttariani, junkfoodisti e salutisti, carnivori ecc. Concorda la sociologa: «le diete, non solo ipocaloriche, ma anche quelle selettive culturalmente e politicamente orientate sono parte del quadro generale di ampliamento dei confini delle abitudini alimentari. Giocano un ruolo importante i mezzi di comunicazione di massa e la tendenza del cittadino e della famiglia di oggi a collegare la propria alimentazione a principi etici, a valori culturali e a ideologie politiche. Tutta la corrente vegetariana, vegana e simili prende le mosse da scelte ideali di salvaguardia del pianeta e del mondo animale; in altri casi il collegamento è con la sostenibilità economica e politica degli allevamenti intensivi. In altri casi ancora, come il junkfood, il rimando è a fenomeni di disagio che determinano comportamenti alimentari poco salutari. In questo senso è corretto dire che ci muoviamo in un ambito di ricerca identitaria di senso». Altroché se del gusto si discute... Ma guardando agli altri paesi, europei e non solo, nonostante la tendenza “onnivora” di cui parlano i sociologi, in Italia è ancora forte l’attaccamento a un insieme di ricette, prodotti e costumi alimentari più sani e alla fin fine si tende a cercare un equilibrio tra tradizione e novità. «Ciò è dovuto probabilmente alla qualità dei nostri prodotti e alla bontà della cucina italiana, famosa in tutto il mondo. Ma c’è un altro aspetto – chiarisce Collicelli –. Tutte le ricerche ci dicono che in Italia è ancora vivo lo spirito conviviale, cioè il valore del mangiare insieme per rafforzare i legami comunitari o familiari, e anche questo rappresenta una bella differenza».