Pillole amare

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2 Aprile 2018
Funzionano meglio gli ospedali pubblici sovvenzionati con le nostre tasse sanguisuga o i nostri tribunali ingolfati? È messa peggio la scuola a rischio di collasso fra pseudoriforme e populismi di ogni risma o la sanità dei disservizi e dei diritti violati uno dopo l’altro? Viaggio al termine di un paese, dove la legge c’è ma non si vede.
di Chiara Moreno

Donna del Centro o del Nord d’Italia, magra, ricca e laureata: vive circa 86 anni. Uomo meridionale, sovrappeso, povero, poco istruito, vive in media 79 anni. 7 anni di differenza nell’aspettativa di vita secondo una fotografia stilata di recente dall’Osservatorio nazionale della Salute nelle regioni italiane. In mezzo stili di vita, variabili sessuali, familiari, geografiche e culturali. Eppure siamo tutti cittadini di un unico paese che dovrebbe garantire ai suoi connazionali un uguale servizio sanitario e stessi diritti. Le leggi, però, ci sono, c’è anche un Tribunale per i diritti del malato... Già: andiamo a vederli questi diritti dei cittadini, quando divengono pazienti fin troppo pazienti.

Si salvi chi può
Secondo i dati del Censis relativi al 2017 il 20% degli italiani rinuncia a curarsi perché le cure sono troppo care e milioni di italiani non possono aspettare i tempi della sanità pubblica. Anche in questo caso i tempi sono variabili da Nord a Sud, se ci troviamo in provincia o in una grande città, ma il disagio e spesso il danno si spalmano in modo abbastanza uniforme in tutto lo Stivale. Eppure il diritto a tempi certi nelle cure lo paghiamo uniformemente e profumatamente ogni anno con le nostre tasse. Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva conferma: «Per una visita oncologica si può attendere in alcune realtà fino a 12 mesi, ma secondo la legge non è lecito aspettare più di 30 giorni per le visite specialistiche e 60 giorni per gli esami diagnostici. Infatti un decreto ormai di 20 anni fa (Decreto legislativo n. 124/1998, art. 3, ndr) che non è stato adeguatamente pubblicizzato stigmatizza come, quando la prestazione sia urgente e incompatibile con i tempi di attesa, il malato si può imporre e chiedere che l’ospedale garantisca la visita specialistica intramoenia senza pagare niente più del ticket». Ognuno di noi, solo per il fatto di essere cittadino italiano, ha diritto a tutte le prestazioni necessarie per il ristabilimento della propria salute e ad avere un’assistenza medica adeguata. Prestazioni e assistenza che dipendono non solo da macchinari e laboratori ma da un numero di medici e di operatori sanitari adeguato al fabbisogno. Interventi d’avanguardia, centri di eccellenza, medici di fama, eppure i malati oggi in Italia stanno male.

Studio medico
La FIMMG (Federazione italiana medici di medicina generale) ha lanciato recentemente un allarme: in 5 anni 14 milioni di italiani saranno senza medici di famiglia con un blocco spaventoso del turn over. Eliano Mariotti, presidente dell’Ordine dei medici di Livorno, non minimizza ma precisa: «In Toscana probabilmente riusciremo a coprire a sufficienza il turn over, ma per alcune regioni sarà un disastro annunciato. Tanti i medici che si laureano ma che non possono specializzarsi perché non vengono attivati, per mancanza di fondi, i corsi. Il risultato boomerang è che questi medici, preparati e molto richiesti all’estero, se ne andranno dall’Italia, dopo aver usufruito di un’ottima formazione pagata con le nostre tasse e saranno altri paesi, come la Francia, l’Inghilterra o gli Stati Uniti, a usufruire della loro professionalità. In compenso – prosegue Mariotti – verranno dalla Romania e dall’Albania o da altri paesi della Comunità europea, per coprire i posti liberi». Insomma i pochi che si laureeranno nei prossimi anni – visto anche il numero chiuso che inchioda l’entrata nelle nostre università, a volte con test assurdi o di cultura generale che saggiano in modo casuale la propensione degli studenti a diventare buoni medici – fuggiranno dall’Italia in cerca di lavoro e di redditi maggiori, mentre la nostra penisola diverrà meta di personale formato, magari benissimo, chissà, nei paesi balcanici. Ma le carenze numeriche riguardano anche gli infermieri, in protesta continua perché si lamentano delle troppe ore di lavoro, di turni estenuanti e del basso stipendio. Intanto sono già 25mila gli infermieri disoccupati. Molti dei quali, quelli giovani, dopo la laurea in scienze infermieristiche migrano anche loro in altri paesi dove vengono ben accolti e retribuiti.

 

La cognizione del dolore
Sarà un retaggio della nostra formazione culturale (dalla sofferenza si impara, pathos - mathos), delle nostre credenze religiose (tu donna partorirai nel dolore!), di preoccupazioni economiche e di inadeguatezze strutturali, fatto sta che in Italia siamo indietro anni luce sul tema del dolore inutile. Eppure, al solito, una buona legge l’avremmo, la legge 38 del 2010, che codifica il sacrosanto diritto a non sentire dolore, da parte dei malati terminali e di quelli affetti da malattie croniche. Soprattutto questa legge riguarda i pazienti oncologici che, comunque ancora oggi, sono per 1/3 sottotrattati per la diffidenza degli stessi pazienti, spaventati dall’uso degli oppiacei, e dei medici stessi. Qualche passo in avanti si registra, invece, sul ruolo delle cure palliative (da pallium, mantello, che copre i sintomi di sofferenza legati alla malattia), ora anche previste prima della fase terminale e, come recita l’articolo 2 della legge 38, “rivolte sia alla persona sia al nucleo familiare”. Purtroppo questi sono i casi estremi, ma tanta strada dobbiamo ancora percorrere per questo diritto a non soffrire inutilmente in ogni momento: durante ogni malattia, quando partoriamo, nei decorsi postoperatori, durante gli esami diagnostici. «Noi di Cittadinanzattiva – spiega ancora Aceti – abbiamo stilato una Carta sul dolore inutile. Ogni individuo ha diritto di sapere che il dolore non va necessariamente sopportato. Deve essere eliminato o, almeno, attenuato in tutti i casi in cui sia possibile farlo, poiché incide in maniera pesante sulla qualità della vita. Di più, aggiungo che il dolore, ormai considerato un segno vitale per eccellenza, deve essere conosciuto dal personale sanitario, misurato, quantificato e trattato adeguatamente, anche considerando la forte componente emotiva che lo accompagna. Le donne, ad esempio, dovrebbero essere messe tutte nelle condizioni di partorire senza dolore». Già, l’epidurale. L’Oms prescrive l’analgesia per tutte le donne durante il travaglio. In Svezia l’epidurale viene somministrata al 45% delle partorienti, in Francia addirittura al 75%, in Italia a una misera media del 20%, con le solite differenze pesanti scendendo dalle Alpi alla Sicilia. 

Protetti e informati
“Ogni intervento terapeutico e operatorio deve essere concordato e modulato, in accordo pieno e consapevole con la volontà del paziente”, un diritto chiaramente espresso dagli articoli 2, 13 e 32 della nostra Costituzione. Insomma il consenso informato. Ma questo provvedimento sebbene necessario non è sufficiente per la protezione e la tranquillità di chi è ammalato o deve sottoporsi a un intervento. Chiunque, professionista o operaio, benestante o meno, quando diventa paziente si trasforma in un soggetto debole che ha bisogno di notizie certe e chiare, di avere intorno a sé un ambiente di cura, di essere circondato da un’atmosfera che lo renda fiducioso e sereno. Sarebbe una buona pratica spiegare al malato cosa gli si sta iniettando, senza indulgere in tecnicismi da sciamani, quale medico e anestesista lo opererà, quali saranno i tempi presunti di degenza, il nome e il curriculum professionale di chi metterà mano al suo corpo e alla sua vita. Alcune considerazioni finali, senza toni gridati di denuncia, ma di senso comune, che poi non è evidentemente così comune, per garantire i diritti del paziente italiano. Ogni cittadino ha diritto a curarsi senza alterare, oltre il necessario, le sue abitudini di vita. C’è una domanda che ogni paziente che abbia più o meno “pazientato” si è posto. Perché il malato, che si presume debba essere più bisognoso di riposo, viene svegliato a ore antelucane e bucherellato prima delle 6,30 da infermieri, difficilmente sorridenti e di buon umore, dopo aver passato magari tutta la notte svegli fra una chiamata e l’altra?

Il paziente italiano
E il freddo di cui spesso si lamentano gli operandi quando vengono portati in sala operatoria, abbandonati a volte per un’ora in un Limbo di calmanti e solitudine mentre aspettano il loro turno? Un malato non deve essere protetto più degli altri da sbalzi termici e dal disagio? Vogliamo parlare degli orari del passo e della modalità? Non ci sarebbe bisogno di una nuova organizzazione che tenga conto certo delle patologie, delle necessità del reparto, di quelle degli addetti alla mensa, degli addetti alle pulizie... e dei pazienti, malati e doloranti nel fisico e nell’anima? Un ospedale non è un’azienda come un’altra. Le associazioni sindacali che proteggono le categorie lamentano orari impossibili, paghe basse, difficoltà di ogni genere. Si deve intervenire su questi aspetti – non c’è dubbio –, ma stare intorno a una persona che soffre non è un lavoro come un altro. Nelle facoltà di medicina, nelle varie scuole infermieristiche, questo aspetto professionale e umano deve essere spiegato bene e condiviso. Una luce di speranza: i dati Bloomberg del 2017(Global Health Index) hanno giudicato l’Italia il paese più sano al mondo. Come è possibile? Gli italiani sono eccezionalmente longevi, vivono più a lungo di quasi tutti gli altri, anche se non in buona salute. Merito forse dei geni e del clima, sicuramente della dieta mediterranea e dello stile di vita. Fortuna nostra.

 

 

Il sugo della scuola
Difficile per chi non lavora nella scuola capire cosa stia succedendo nelle aule. Un magma confuso tra genitori aggressivi, scioperi e proteste, riforme continue. Intervento di un insegnante appassionato per orientarsi in questo labirinto.

Una scuola allo sbando, senza bussola, confusa e pretenziosa, in balia di riforme posticce e innovazioni balorde. Specchio di una società che non sa più che pesci prendere né dove andare a parare, perché incapace di credere a qualcosa e tantomeno di credere in sé stessa tra dirigenti ingolfati, insegnanti demotivati e sottopagati, studenti ignoranti e custodi tutt’altro che indispensabili. Possibile che esista ancora qualche conservatore così reazionario da non capire l’importanza dei progetti, delle competenze, dell’alternanza scuola/lavoro, della lezione non frontale, delle LIM, dell’autovalutazione degli studenti, dell’orientamento e di tutte quelle straordinarie conquiste del progresso che hanno reso l’istruzione al passo con i tempi? Possibile che qualcuno pensi ancora che la scuola consista soltanto nell’insegnare italiano, latino, matematica, scienze, storia e filosofia? Che Platone contenga già in sé un’educazione alla legalità, che per fortuna lui non definisce così, trasfigurata in un orizzonte più ampio e radicata su basi più profonde della scontata manifestazione contro la mafia e la corruzione? Che l’astrazione matematica o la versione di latino e greco diano maggiore ordine, logica e razionalità al pensiero di qualsiasi predica ben intenzionata sulla solidarietà? Che la selezione che si ostina a distinguere promossi e bocciati sia l’unico mezzo per garantire alla scuola equità non classista? Che la formazione ha valore di per sé e non solo al fine di professionalizzare per il mondo del lavoro? Che togliere ore a Dante, Seneca e Pascal per concederle all’educazione stradale non segna un passo avanti nel sapere? Che la grammatica e le nozioni, le poesie e le date imparate a memoria non sono un retaggio passatista, ma i fondamenti della cultura? Che gli studenti-clienti e i genitori-datori di lavoro, oggi anche nella versione aggiornata di picchiatori, sono la perversione di un’istruzione corretta? Possibile che ci sia ancora qualcuno convinto che al centro della scuola non ci sia lo studente né l’insegnante, ma le materie di studio, punto d’incontro di entrambi? Per stanchezza, pigrizia, ipocrisia, viltà e inettitudine o, peggio, per incapacità e convinzione, la scuola è morta. W la scuola.
Fabio Canessa

Secondo giustizia
Tempi biblici per i processi, numero esorbitante di casi pendenti, tribunali sotto organico, accuse di mancata efficienza ed efficacia, incertezze della pena. Non male per un paese che con il diritto romano ha creato le basi della giustizia e della legge in tutto il mondo occidentale. La parola a un giudice (
  Leonardo Tamborini procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Trieste) 
Perché sono così lunghi i processi nel nostro paese? In media – contando il primo e il secondo grado di giudizio e, per chi vi ricorre, la Cassazione – per avere una sentenza definitiva passano 15 anni ma si arriva anche a 25 anni di iter processuale.
«I tempi sono senz’altro lunghi, anche se variano da zona a zona. Li potremmo anche, come a volte accusa la stampa, definire “biblici” ma solo in alcune materie e in alcune aree geografiche particolarmente in crisi per le insufficienti dimensioni degli uffici giudiziari in rapporto ai problemi del territorio. Molto dipende dall’efficienza della pubblica amministrazione, sto parlando delle cause civili; se è veloce ed efficiente, i cittadini ricorrono molto meno alla giustizia. Detto questo, la procedura del ricorso in Cassazione mostra sicuramente un’anomalia: nel penale molti imputati impugnano le sentenze per allungare i tempi e arrivare alla prescrizione. Infatti noi magistrati da tempo proponiamo che la prescrizione valga solo fino al primo grado di giudizio».
Troppo numerosi i processi, pochi i giudici, centinaia di avvocati in ogni provincia. Queste fra le accuse più comuni alla macchina della giustizia.
«È di un paio di mesi fa la notizia dei genitori che hanno fatto ricorso contro il voto “9” che un insegnante aveva dato al loro figlio. I genitori sostenevano che il figlio meritasse “10” e si sono rivolti al tribunale amministrativo regionale. Questo caso è illuminante e non ha bisogno di commenti: in Italia si può ricorrere alla giustizia per qualsiasi cosa. Conosco pochissime persone che non hanno mai avuto a che fare con un tribunale. Tutto questo genera un numero enorme di procedimenti e un numero altrettanto spropositato di avvocati. Per ogni magistrato ci sono più di 20 avvocati. Se ogni avvocato presenta 2 atti alla settimana, ogni magistrato dovrà prendere una decisione ogni ora, che spesso richiede una serie di accertamenti preliminari e impegna la burocrazia dell’ufficio, tra avvisi e notifiche. Più che di nuove risorse, il sistema avrebbe bisogno di un radicale taglio delle cause. Qualcosa si sta facendo tra depenalizzazioni e limitazione delle impugnazioni, ma la montagna da scalare è ancora enorme».
Sembra di capire, dunque, che voi magistrati siate pochi rispetto al numero dei processi intentati e che gli avvocati incentivino o certo non scoraggino i clienti a intentare cause che, spesso, hanno come unico frutto utile quello dell’incasso delle parcelle legali.
«Intanto se, come dicevo prima, limitassimo drasticamente i casi in cui si può impugnare una sentenza, argineremmo un po’ il fenomeno. Adesso, infatti, le sentenze si possono impugnare – e quindi è necessario rifare un processo – anche per le sfumature, mentre dovrebbe essere possibile farlo solo per gli errori. Comunque tutte le categorie hanno le loro colpe, la nostra sta puntando sulla responsabilità e la produttività. Ciò evita qualche caso di ingiustificata inefficienza, ma rischia di spingere i magistrati a prendere provvedimenti frettolosi per non incorrere in sanzioni. Abbassare la qualità delle decisioni è un rimedio peggiore del male. In molti altri paesi la giustizia sembra efficiente perché è rapida, ma a guardare bene è anche molto sommaria, salvo che non si abbiano tanti mezzi per far valere i propri diritti».
Quali soluzioni proponete per un miglioramento di un diritto base del cittadino, quello di ottenere giustizia?
«Il sistema è difficile da correggere. Nei paesi anglosassoni la procedura è sostanzialmente regolata dai giudici stessi. In altri sistemi, come quello italiano, tutto è invece regolato rigidamente dalla legge. Provate a immaginare una grande azienda le cui procedure interne di produzione sono decise rigidamente dal Parlamento e in maniera spesso contraddittoria perché in un periodo comandano i sindacati, per un altro i dirigenti e per un altro ancora i capireparto… In altre parole ogni maggioranza ha una sua idea di giustizia e produce norme che spesso fanno a pugni con quelle emanate dalla maggioranza precedente. Stando così le cose, la miglioria più importante da fare sarebbe quella di liberare la giustizia da tutti i procedimenti che non interessano a nessuno o interessano pochissimo oppure che potrebbero essere trattati meglio in via amministrativa. Le violazioni edilizie, ad esempio, anche le più piccole, finiscono nelle aule dei tribunali, con la conseguenza che per accertarle occorrono procedure, giudici e gradi di giudizio come se fosse un reato di mafia, con la differenza che il termine di prescrizione è più breve e molte finiscono prescritte. Una contestazione amministrativa sarebbe più efficace».
E tutti questi processi tolgono spazio a quelli che riguardano le offese gravi alla società, allo stato e alla vita delle persone.
«Un’altra materia che impegna tantissimo la giustizia in Italia è quella del condominio. In un paese con criminalità organizzata, corruzione ed evasione fiscale record è assurdo che tanti magistrati si debbano occupare di liti condominiali. Per tutte le piccole liti tra privati è stata introdotta la mediazione obbligatoria: in sostanza non si può adire il giudice se prima non si prova a risolvere la controversia con un accordo davanti a un mediatore. Non sempre funziona, a volte viene attivata senza alcuna reale volontà di chiudere la controversia, ma solo per poter aver diritto di ricorrere al giudice puntando a una vittoria piena. Del resto, se Tizio mi deve 20mila euro perché dovrei accettare di fargli uno sconto?».

La ricetta di Veronesi
C’era un uomo e ora non c’è più. Si chiamava Umberto Veronesi ed era un medico con i fiocchi. Sì un oncologo di fama, uno scienziato, stimato e amato da tutti coloro che l’hanno conosciuto. Ma “riuscire nella vita professionale può essere relativamente facile. È molto più difficile riuscire in quanto essere umani” ha detto qualcuno. Ecco Umberto Veronesi era un esemplare di essere umano davvero riuscito. Ha scritto vari libri, ma vogliamo segnalarvene uno uscito una decina di anni fa: Una carezza per guarire, ripubblicato poco prima della sua morte con il titolo Ascoltare è la prima cura. “È necessario che un medico – spiega Veronesi – rispetti i bisogni irrinunciabili di donne e uomini che non devono soffrire, devono essere informati e mantenere sempre e comunque la loro dignità”. Una ricetta semplice prescritta da un medico di fiducia.
U. Veronesi M. Pappagallo Ascoltare è la prima cura Sperling & Kupfer, 2016 pp. 224 - 17,90 euro