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Accelerare l’apprendimento e impiantare un’informazione nel cervello grazie alla corrente elettrica. La realtà che supera la fantasia in alcuni esperimenti neuroscientifici. Ma sarà vera conoscenza?
di Patrice Poinsotte

 

Via penne, carta, libri, computer, tablet, per imparare serve solo una cosa: un microchip ben impiantato in testa, capace di immagazzinare terabytes di informazioni.
È un autore di romanzi di fantascienza, William Gibson, che negli anni Ottanta del secolo scorso getta le fondamenta di quello che sarebbe diventato uno dei più grandi fantasmi della nostra epoca: lo scaricamento diretto della conoscenza nel cervello (ricordate Johnny Mnemonic?). Un’idea questa ripresa al cinema qualche anno più tardi dai fratelli Wachowski nella trilogia Matrix, questa volta per dopare capacità fisiche e memoria muscolare del protagonista Keanu Reeves, capace di imparare il kung fu senza il minimo sforzo.

Seguire la corrente
Ci vorrebbe poco per convincersi che tutto questo resterà solo su carta e pellicola, ma negli u l t imi anni esperimenti neuroscientifici hanno spostato il tema della t r a smi s s ione della conoscenza dalla fiction alla scienza. E gli esiti sono sbalorditivi: con una pila di 6 volt e un patch applicato sul cranio, scienziati americani e giapponesi sono riusciti ad accelerare il processo di apprendimento.
Che l’elettricità sia in grado di interagire col cervello umano non è una novità, anzi, gli antichi ne erano già al corrente. Medici egizi e romani come, per esempio, il dottore dell’imperatore Tiberio, conoscevano già le qualità terapeutiche di tale sostanza: sapevano, infatti, che applicare un pesce elettrico (una torpedine) sulla fronte curava la cefalea. Ben più tardi, all’inizio degli anni Duemila, Raja Parasuraman, professore di psicologia presso la George Mason University (Usa), scopre che una stimolazione transcranica a corrente elettrica continua (tDCS) – una tecnica di neurostimolazione in grado di modulare l’eccitabilità neuronale attraverso l’erogazione di corrente elettrica di bassa intensità – è in grado di accelerare l’apprendimento. In tempi ancora più recenti Kazuhisa Shibata, professore presso il dipartimento di psicologia University (Usa), riesce a velocizzare la risoluzione di un puzzle stimolando direttamente la corteccia visuale primaria di cavie umane.

Flusso di conoscenza
Un apprendimento più rapido? Basta dunque una semplice batteria e un materiale tutt’altro che costoso. E c’è dell’altro. Alcuni scienziati hanno dimostrato che il tDCS, oltre a potenziare le prestazioni del cervello, è in grado sia di aiutare i pazienti a recuperare più rapidamente dopo un ictus sia a stimolare la creatività di una persona. Risultati incoraggianti sono stati ottenuti di recente da una società privata di ricerche statunitense a Malibu, in California, insieme a diverse Università del paese: il gruppo di studiosi è riuscito, infatti, a rendere più svelta l’acquisizione della capacità di pilotare un aereo, attraverso la stimolazione transcranica a corrente elettrica in un simulatore di volo.
32 apprendisti piloti sono stati separati in 3 gruppi: il primo doveva ricevere un impulso elettrico molto preciso nella corteccia dorsolaterale prefrontale – un’aria dell’encefalo essenziale alla pianificazione mentale –, il secondo nella corteccia motoria sinistra – quella che coordina le attività della mano destra –, mentre il terzo indossava una cuffia elettrica senza ricevere nessun stimolo.

Mancanza di stimoli
I risultati delle performance dei 3 gruppi (anche se il campione è limitato) confermano quelli ottenuti da Parasuraman e la portata della scoperta è di quelle che cambiano il nostro rapporto con il mondo: accelerare il flusso della conoscenza potrebbe rivelarsi il passo decisivo verso la “stampa” del sapere direttamente nel cervello. Però c’è un però. Le neuroscienze ci dicono, infatti, che l’83 per cento di ciò che sappiamo passa dagli occhi, l’11 dall’udito, il 3,5 dall’olfatto e l’1,5 per cento dal tatto, insomma dagli stimoli sensoriali. Allora sarà vero apprendimento un’informazione impiantata nella mente con una tecnica che cancella del tutto la distanza tra soggetto e oggetto della conoscenza? O sarà, forse, un sapere senza senso proprio perché non passa dai sensi?

 

Oggetto di studio. Come sappiamo ciò che sappiamo.
Fare la distinzione tra il soggetto che conosce e l’oggetto da conoscere. Ecco il passo necessario, secondo gli studiosi, per elaborare una teoria della conoscenza capace di stabilire i legami tra ciò che si sa e la realtà. Altrimenti è impossibile sapere ciò che sappiamo perché “la conoscenza è la messa in relazione di un soggetto con un oggetto attraverso una struttura cognitiva”, ha scritto lo psicologo, biologo e filosofo svizzero Jean Piaget. Come nel caso, per esempio, della teoria della gravitazione universale, dove una legge della fisica enunciata da un soggetto, Newton, mette in relazione gli oggetti del mondo grazie a delle strutture cognitive che sono delle funzioni matematiche e dei numeri. Non tutti, però, sono d’accordo. Un’alternativa brillante delle neuroscienze ci dice che sarebbe lo spirito a proiettare le sue strutture sul mondo stesso, cioè il cervello a provocare la nostra conoscenza teorica del mondo. «L’invenzione sarebbe perciò – commenta Etienne Klein, direttore di ricerca presso il Commissariato all’energia atomica (Cea) francese e filosofo della scienza – un vettore d’introspezione che dice più cose di noi stessi che della realtà che descrive». Einstein, ai suoi tempi, rifiutava vigorosamente l’idea di qualsiasi costrizione mentale di origine psicologica: per il grande scienziato i concetti sono inventati liberamente e in nessun modo derivati da meccanismi cerebrali.
Come si vede, un dibattito vivace e apertissimo.

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