Il vero dipinto

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18 Settembre 2020
Un’inondazione di informazioni, spesso false (e tendenziose) o imprecise, diffuse sui social per creare confusione: l’“infodemia” che nel coronavirus ha trovato terreno fertile. A lanciare l’allarme l’Unione Europea, ma il problema delle fake news e della disinformazione non è nato oggi. Qualche rimedio per ridurre il contagio informativo mondiale?

Articolo pubblicato su NuovoConsumo del mese di settembre 2020

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Come per il Covid-19 anche per le notizie che lo riguardano c’è un tasso di contagio. E se la notizia è falsa, la velocità con cui si propaga “senza protezione” attraverso internet la amplifica a tal punto da renderla vera, o meglio “virale”, creduta da un numero elevato di persone che sono in cerca proprio di quella notizia e si compiacciono di trovarla. Sul contagio in questione c’è uno studio interuniversitario con veri e propri modelli epidemiologici, da cui si è vista la grande portata di questa “infodemia”: “un’inondazione di informazioni sul virus, spesso false o inaccurate, diffuse sui social per creare confusione e compromettere l’efficacia della risposta sanitaria pubblica”, come scrive l’Unione Europea. Le piattaforme social più usate nel periodo gennaio-febbraio presentavano tutte R0 (indice di contagio) critico, ampiamente sopra soglia di 1, confermando così l’elevato coinvolgimento nel dibattito pubblico sull’emergenza (Covid- 19 Social media infodemic, marzo 2020).

Tant’è virale
Dal vero al virale, facciamo allora una breve cronistoria: nella fase 1 ci ricordiamo della vitamina C che guariva se somministrata ad alte dosi, del contagio trasmesso dalle zampe dei cani, e così via fino a Bill Gates che avrebbe creato il virus per dominare il mondo. Nella fase 2 c’era il vocale WhatsApp dell’italiano bloccato a Wuhan che raccontava dell’esercito autorizzato a sparare a vista, l’emergenza sanitaria dovuta alle antenne 5G e così via con le bufale. Va precisato che esistono notizie false involontarie (misinformazione) che possono essere credute vere sulla base di emozioni e pregiudizi (post-verità), ma anche notizie manipolate e organizzate a tavolino da chi gestisce i mass media (disinformazione vera e propria). Queste ultime, difficili da isolare tra le tante, sono il cavallo di Troia dei regimi e vengono attentamente monitorate. È interessante, ad esempio, quanto riportano l’Agcom (Osservatorio sulla disinformazione on line) e uno studio dell’Ateneo Ca’ Foscari riguardo all’attenzione attribuita dalle “fonti di disinformazione” al coronavirus: un terreno fertile, evidentemente, per la sua scivolosità. Le fake news sul Covid-19 hanno toccato punte del 60% giornaliero del totale della disinformazione on line a marzo, nel periodo del picco, per poi ridiscendere di pari passo col virus. L’in-cidenza del “falso” durante il lockdown ha oscillato intorno al 5% del totale delle notizie on line sulla pandemia, con una maggiore virulenza nella prima fase dell’epidemia (1° gennaio - 20 febbraio), quando la buona informazione non aveva ancora recuperato terreno. Ma continuiamo con la nostra ricostruzione del “falso”: nella fase 3 ecco che vediamo riesplodere tutte le teorie apocalittiche e complottistiche e l’idea sempre suggestiva che le multinazionali del farmaco avrebbero costruito il virus in laboratorio per vendere il vaccino a peso d’oro.

Senza uno straccio di prova
In tutti questi casi assistiamo alla «violazione dell’onere della prova», come lo chiama lo scrittore e magistrato Gianrico Carofiglio, ovvero «all’obbligo, per chi asserisce qualcosa, di provare la propria asserzione qualora richiesto». L’onere viene ignorato quando non ribaltato e le prove, se ci sono, non sono provate. Comunque non attraverso il metodo scientifico che procede per congetture confutabili e non per affermazioni indimostrabili o rivelazioni fatte isolando gli elementi a conferma delle proprie convinzioni. È anche vero che la teoria del virus costruito in laboratorio si colloca, tutto sommato, già a un livello un po’ più alto, e i dubbi su quale sia il confine tra una bufala e un’ipotesi su cui indagare complicano la faccenda. Nemmeno si può ignorare che esistano diverse scuole di pensiero intorno alla medicina e all’informazione stessa. Ma chi decide quando una notizia è falsa? Solo le istituzioni pubbliche? O addirittura quelle private come nel caso di Facebook? Sono queste le domande di fondo di chi si dichiara “fuori dal sistema” e invita a dubitare, oltre che di internet, anche dei media tradizionali e della comunicazione istituzionale. Come combattere allora questo fenomeno tipico dei nostri tempi, che trasforma la libertà di espressione in strategia per l’accaparramento del consenso e in guerra di interessi (politici, economici ecc.) basata su teorie prive del necessario supporto scientifico?

 

Principio di realtà L’UE risponde netta che “alcune potenze straniere mirano a compromettere le nostre democrazie”. E fa i nomi: Russia e Cina, contando 550 esempi provenienti dalla Russia di informazioni sanitarie fasulle, del tipo “lavarsi le mani non serve a nulla” o “il Covid uccide solo gli anziani”. E suggerisce, proprio per evitare il rischio di censura e rispettare il pluralismo del dibattito democratico, di combattere l’uso pianificato della cattiva informazione per fini politici. «Tutte le opinioni sono legittime e rispettabili ma a partire dai dati di realtà», ammonisce il professor Ruben Ruzzante, docente di diritto dell’informazione alla Università Cattolica di Milano, membro della task force creata dal Governo contro le fake news. Come tornare, dunque, a fidarci dell’ecosistema mediatico di cui – bisogna ammetterlo – siamo tutti parte attiva nell’epoca del digitale? Se avete dubbi su una notizia, una fotografia o sulle dichiarazioni di un politico, ci sono i “verificatori dei fatti”, cioè persone o organizzazioni che controllano la notizia prima e dopo la sua diffusione. Nel web trovate piattaforme dedicate al fact-checking e c’è un’omonima branca del giornalismo che si occupa di debunking .

Fonte d’informazione
Ma già a inizio quarantena, il Governo aveva creato la sua task force e dal Ministero della salute tutti i giorni arrivavano sui telefonini dati ufficiali e smentite. Probabilmente è come svuotare il mare con un cucchiaino, ma le alternative sono meno efficaci e richiedono tempo. Tra l’uscita di una notizia e la controparte fake trascorrono tra le 3 e le 21 ore. Dopo 24 ore la disinformazione è già in circolo. «Se non si previene con adeguate strategie comunicative, non rimane che il ricorso al debunking, cioè smontare pezzo per pezzo le notizie false, pratica che abbiamo visto essere poco efficace perché rischia di innescare nuovamente l’ondata di disinformazione». A dirlo è Fabiana Zollo, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e consigliera del Governo. Quella di diffondere un’ informazione corretta e da fonti autorevoli, se non proprio ufficiali, resta la principale arma a nostra disposizione. (cfr. Ben informati, p. 15). Intanto in molti ambiti della società si cerca di correre ai ripari: dal fronte della scuola con l’iniziativa “antibufale” della Polizia di Stato, che ha veicolato i messaggi corretti durante l’Esame di Stato, all’alimentazione con l’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) che ha lanciato Metrofood-Ri, banca dati sulla sicurezza alimentare e il contrasto a frodi e sofisticazioni; fino alla richiesta di una commissione parlamentare sulle fake news da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

 

Clima social
Anche i social network, nell’occhio del ciclone, hanno alzato gli scudi. Facebook e Youtube si sono impegnati a promuovere solo notizie basate su fonti autentiche e a rimuovere le altre. Ancora troppo poco, e così al grido di “Facebook diffonde odio e razzismo” è partita una campagna negli Stati Uniti di boicottaggio della pubblicità, a cui hanno aderito Coca-Cola, Unilever e altri potenti marchi. Facebook incassa il 98% dei suoi 70 miliardi di dollari di ricavi annui dalla pubblicità e quello che non si perdona a Zuckerberg è l’approccio soft al problema, a partire dalle esternazioni di Donald Trump. C’è poi Instagram, che segnala esplicitamente i contenuti fuorvianti e falsi fornendo la possibilità di accedere alle motivazioni. Ma il social più deciso di tutti è Twitter che, a margine di alcuni post di iscritti, rinvia a pagine di fact-checking attirandosi con ciò le critiche dello stesso Trump, di cui ha etichettato come possibili fake due tweet. È anche vero che gli utenti bloccati si trasferiscono poi su altre piattaforme, TikTok ad esempio. Il potere scava così nuove strade per riaggregare in fretta il consenso sulla scia di quanto si è visto con il coronavirus. Un’operazione che può nuocere gravemente alla salute, ammoniscono dall’UE. “I pericoli non sono finiti con l’affievolirsi dei contagi – si legge nella Comunicazione sulla disinformazione relativa alla pandemia –. La disinformazione sui vaccini continua e probabilmente renderà più difficile la loro distribuzione quando saranno a disposizione”. Contro la propaganda malevola straniera, l’Esecutivo propone una cooperazione tra UE e Oms fino a coinvolgere un’alleanza militare come la Nato. Obiettivo: rimuovere i falsi dal web e costruire una contronarrativa capace di contrastare le notizie inventate di sana pianta.

Glossario - La parola ai fatti
Fact-checking

Verifica dei fatti (o delle fonti) alla base del giornalismo, che serve a stanare e a monitorare le notizie false o fuorvianti, comprese le dichiarazioni pubbliche e le immagini, fornendo così un servizio di corretta informazione.
Debunking
Il debunker è lo “sbufalatore”, chi smaschera sul web bufale, affermazioni o notizie false, esagerate o antiscientifiche. Ripercorre a ritroso le varie fasi, dal prodotto finito al contesto, individuando le motivazioni all’origine delle fake news.