Il regalo più grande

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7 Dicembre 2017
E se ”a Natale siamo tutti più buoni” non fosse una frase retorica, ma un impegno, un augurio, una speranza per restare umani? Come la festa più bella dell’anno ha qualcosa da insegnarci per la vita di tutti i giorni, perché essere buoni significa pensare e agire consapevoli che la realizzazione di sé dipende da quella degli altri. Ed essere cattivi, in fondo, non dà la felicità
di Aldo Bassoni

Che crediamo o meno nella sacralità del Natale, che siamo devoti cristiani o agnostici impenitenti, il 25 dicembre lo vivremo tutti o quasi allo stesso modo, tra le mura domestiche, nella sicurezza emotiva della famiglia, riuniti attorno a una ricca tavolata a scambiarci sorrisi e regali. I brutti pensieri, i sentimenti odiosi e le cattiverie sono banditi almeno per un giorno e lasciano campo libero ai buoni sentimenti. In quelle ore le relazioni gioiose cercano di invadere ogni istante della nostra vita e noi siamo ben lieti di aprire le porte del cuore ai nostri cari, agli amici intimi, alle persone a cui vogliamo bene. Perché a Natale siamo tutti più buoni. O almeno così si dice.

Giorno di festa
«In parte c’è una sorta di inganno in quest’aria di festa – afferma con l’amaro in bocca Adriano Zamperini, docente di psicologia sociale all’Università di Padova –. Ho come l’impressione che ci sia lo stesso ragionamento dei bambini quando vengono inseriti in laboratori scolastici sui diritti umani e sulla tolleranza. Tempo fa avevo fatto ricerche sull’educazione civica nelle scuole. Parlando con questi ragazzi mi dicevano che nel laboratorio dei diritti umani si sentono tutti uguali, si vogliono bene, cooperano, poi tornano in classe e lì comincia ad essere il tempo della competizione. Mi ero fatto l’idea – continua Zamperini – che il laboratorio era un po’ una vacanza dalla vita, nel senso che la vita è lotta, confronto. Ecco: la festa è una sorta di sospensione della routine quotidiana». Niente contro la festa più bella dell’anno, ci mancherebbe. Anzi dovrebbe aiutarci a rispecchiarci dentro un’idea di vita che potremmo fare, ma che non facciamo. In altre parole le festività ci dovrebbero permettere di riflettere sulla vita reale per renderci conto di quello che non va nelle relazioni con gli altri. «Credo che la questione sia di sconfiggere l’idea che si possa stare bene solo se prendiamo una vacanza dalla vita. Questa è un po’ la prima sfida di fondo – sospira Zamperini –: riuscire a ragionare se possiamo permetterci di essere altruisti e solidali come stile di vita». C’è chi lo fa, dedicando una buona parte del proprio tempo ad aiutare il prossimo.

Spirito di solidarietà
I dati sul volontariato fotografano un paese tutt’altro che chiuso in sé stesso. Nonostante la crisi, crescono i numeri di chi sceglie di operare nel sociale. Mentre redditi e occupazione crollano, i fondi raccolti dalle organizzazioni umanitarie registrano crescite a 2 cifre. Secondo il Censis sono 32 milioni gli italiani che hanno fatto una donazione nell’ultimo anno; e dal 5 per mille sono arrivati 132 milioni di euro ai primi 10 destinatari su un totale di circa 500 milioni di euro. Un sms, un bonifico, un lascito testamentario, tutto può contribuire a dare una mano a chi ha bisogno. Se il welfare pubblico si ritrae – il Fondo nazionale per le politiche sociali, ad esempio, è passato da 1,5 miliardi di euro nel 2007 a 312 milioni nel 2016 –, si dilata la rete di aiuto informale sostenuta dalle donazioni e da una responsabilità individuale diffusa. Il boom delle donazioni certifica ancora una volta la propensione all’altruismo e alla solidarietà degli italiani come un connotato costitutivo e rappresenta anche una risposta al progressivo restringimento dello stato sociale. E non mancano le forme di donazione più innovative, che cominciano a prendere piede: nel 2015, sempre secondo l’indagine del Censis, l’1,2% degli italiani ha finanziato iniziative e progetti promossi sul web tramite piattaforme digitali di crowdfunding (tra i giovani la quota sale al 4,3%).

 

Dono di sé
Ma il vero salto di qualità avviene quando si passa dalla pur importante beneficenza al dono di se stessi, soprattutto tra i giovani. In alcune città si sta provando a gestire l’inserimento di centinaia di studenti in associazioni di volontariato per alcune settimane, al posto della tanto discussa alternanza scuola-lavoro che si traduce spesso in bieco sfruttamento da parte di aziende private, ben felici di utilizzare manodopera a costo zero. «Perché in fondo, nell’ottica di chi fa del bene, l’altro è colui con cui abbiamo a che fare quotidianamente – sottolinea Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa –. È, soprattutto, chi ha bisogno di noi, anche per piccole cose che non ci costano nulla. È colui che ci permette di essere noi stessi, visto che da soli non siamo nulla». Già, nessuno si fa da sé. Tutti abbiamo bisogno di tutti e proprio le feste di Natale ci potrebbero aiutare a riflettere sulla possibilità di vivere in modo armonioso con gli altri durante tutto l’anno. «Secondo me è possibile. Solo che siamo presi da una frenesia che ci impedisce di essere consapevoli di ciò che facciamo, sempre sotto pressione – spiega Zamperini –. Durante la festa, invece, è tutto più lento, è come se il tempo si dilatasse: puoi fare due parole, puoi fermarti, puoi ascoltare qualcuno. Durante l’anno per essere ascoltato devi pagare uno psicologo». A pensarci bene, si tratta proprio dell’eterno dibattito sulla natura umana, tra il pessimistico homo homini lupus di Hobbes e il mito bucolico del buon selvaggio di Rousseau. Quale scegliere tra queste due prospettive?

Ben altro
«Nessuna delle due – afferma Zamperini –. Credo piuttosto che dobbiamo avere il coraggio di essere quello che siamo, esseri socievoli, mansueti e comunitari, per dirla col grande Aristotele. Non vedrei il male come un destino inesorabile: non siamo già dannati e nemmeno salvi a prescindere da come ci comportiamo.
Sta a noi costruire comunità e spazi di convivenza che ci permettano, in quanto esseri umani consapevoli e responsabili, di non cadere né in una sonnolenza buonista né in una perenne ansia allarmata». Certo, quello che accade nel mondo non ci aiuta ad avere fiducia nel prossimo. La paura è un’emozione che segnala una sorta di vulnerabilità, più mi sento minacciato più metto in atto strategie di protezione che possono anche tradursi in strategie di offesa. In altri termini, per paura del male mi trovo io stesso a fare del male. E il tema dello straniero è determinante.
«Quella dello straniero è una figura stor i c ament e minacciosa che genera grande preoccupazione ma di cui viene fatto un uso politico – precisa Zamperini –. In realtà ci sono dei cambiamenti a livello globale che mettono in risalto alcuni aspetti che prima si pensavano risolti e che spingono a ripensare il legame sociale, cioè come stiamo insieme. Quando è partita la globalizzazione la si è vista come un processo da santificare, però ci siamo dimenticati che non si spostano solo le merci, ma anche gli esseri umani». Mettersi nei panni dell’altro: in fondo è semplicemente questo l’impegno sul quale il Natale ci invita a riflettere.

 

Che cosa c’è di buono?
Una speranza o un impegno, comunque “essere buoni” ha a che fare con la felicità. Ce lo spiega Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa.

Che cosa significa, se un significato ce l’ha, “a Natale siamo tutti più buoni”? Dato di fatto, augurio o retorica?
«È certamente una speranza. Per alcuni, anzi, si tratta di un impegno. È comunque l’idea che, almeno in un periodo dell’anno, dobbiamo provare a fare in modo che le divisioni non prendano il sopravvento sulle relazioni che abbiamo costruito o che stiamo costruendo. Anche piccoli segni – un pranzo insieme, la condivisione di un regalo – hanno questo significato».

Si può essere buoni, generosi e solidali verso il prossimo in tempi di crisi come questi, in cui ci facciamo i conti in tasca?
«Proprio in momenti come questi certi gesti hanno ancora più valore. La solidarietà, comunque, non è solo mettere mano al portafoglio. È soprattutto un modo per dimostrare, in tante forme, che gli altri non ci sono estranei, e che noi, per loro, non siamo degli estranei».

Allora chi è l’”altro” nell’ottica di chi fa del bene?
«È proprio colui che mi permette di essere me stesso. Da solo, senza gli altri, non sono nulla».

Ma “essere buoni” che cosa significa? E si può imparare a esserlo davvero?
«Significa togliersi dalla testa l’idea di essere al centro del mondo. Significa pensare e agire consapevoli che la realizzazione di sé dipende da quella degli altri. Significa operare concretamente, in maniera costruttiva, per evitare i conflitti. E dato che spesso ci comportiamo in maniera diversa, tutto ciò lo dobbiamo imparare».

Tra bontà e cattiveria oggi chi vince?
«Vince sempre la bontà. Non è una speranza ingenua: è la constatazione che la cattiveria non rende felici».
Rita Nannelli

 

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