Il nocciolo della questione

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Perché trasformare l’economia agricola, pastorale e turistica della Basilicata per il petrolio dall’impatto sociale e ambientale devastante?
di Mario Tozzi

Ho preferito scrivere di trivellazioni e idrocarburi a referendum espletato per evitare di entrare nella spirale di polemiche pre-voto che hanno dato il senso di quanto la questione fosse sentita e impastata di illegalità e malaffare, oltre che di ambiente.

Una questione centrale, però, mi sembra sia stata elusa: ha senso trasformare integralmente l’economia di una regione a vocazione soprattutto agricola, pastorale e turistica per ottenere una fonte energetica effimera e che ha un impatto sociale e ambientale devastante? Lo sviluppo economico legato ai combustibili fossili e all’uso dei carburanti ha il fiato corto, soprattutto perché è legato a una logica insensata dell’incremento dei consumi, come se il Pianeta Terra fosse diventato improvvisamente inesauribile. Purtroppo così non è. Per questa ragione si comincia a fare strada la nozione di decrescita sostenibile, frase che fa accapponare la pelle agli economisti, ma che è evidentemente l’unica via per una Terra così popolata. L’attuale economia energetica si basa su pozzi, oleodotti, raffinerie, centrali termoelettriche, linee di trasmissione che, tutte assieme, assommano a circa 10mila miliardi di dollari, un prezzo che nessuna società potrà ammortizzare se non prima di una trentina di anni.

Dunque, nessuna meraviglia se le compagnie petrolifere vogliono sfruttare il petrolio fino all’ultima goccia, visti anche i ricavi faraonici che possono lucrare da ogni giacimento. Il petrolio lucano non sfugge a questa logica: denari spesi in opere la cui utilità è spesso dubbia e scarsa propensione al raffreddamento dei consumi. Con la possibilità concreta che, una volta finito lo sfruttamento, quello che resta in mano sia davvero poca cosa: territorio devastato e controllato dalle società per azioni, occupazione a zero, frutteti abbandonati e aree archeologiche e naturalistiche trascurate.

Agricoltura di pregio, turismo, beni culturali e parchi devono resistere comunque, se non ci si vuole trovare solo con un pugno di piazzole esauste e con un oleodotto sporco alla fine dell’orgia petrolifera. Tutto questo come se non ci fosse stata la Conferenza di Parigi sul clima, in cui il nostro paese ha controfirmato un accordo su base volontaria per uscire progressivamente dai combustibili fossili, primo obiettivo -50 per cento entro il 2030. E quando vogliamo farlo, tutto nel 2029? Di questi ragionamenti non c’è stata eco nel dibattito mediatico, come se il progresso non dovesse mai fermarsi a riflettere, ma solo avanzare.

Almeno a sapere verso dove. Sempre più persone, però, nutrono il dubbio che forse sarebbe stato meglio lasciare quel petrolio lucano a riposare nel sottosuolo, magari a costituire una riserva strategica da usare nel momento del bisogno o, semplicemente, comprendendo che non si può basare lo sviluppo su risorse che stanno per finire.