La plastica è forse il prodotto più rappresentativo dell’Antropocene, la nuova epoca geologica segnata dalla profonda alterazione dell’ambiente terrestre da parte dell’uomo. L’abbiamo inventata noi da circa un secolo, ma è negli ultimi 50 anni che il suo uso è diventato onnipresente e con esso pure l’inquinamento di terre e acque. Le plastiche – ce ne sono di diversi tipi – non sono biodegradabili, si accumulano nell’ambiente, eventualmente si rompono in pezzetti sempre più piccoli, impercettibili per la nostra vista, ma chimicamente sempre presenti. Talora sono tossiche, o liberano additivi come gli interferenti endocrini, che poi entrano nella catena alimentare a partire dal plancton oceanico fino al nostro piatto e al nostro sangue. Viviamo in un mondo di plastica: compongo queste parole su una tastiera di plastica, poi vedo l’isolante dei cavi elettrici, le penne per scrivere, l’imbottitura della sedia, l’abito di fibre sintetiche che indosso. Si tratta di materiali fantastici e a basso costo, che hanno permesso di fare cose incredibilmente utili e comode in ogni campo. Ma proprio il basso costo e la diffusione ne hanno agevolato la dispersione.
Esco di casa e per strada trovo una bottiglietta dell’acqua in pet (polietilene tereftalato), un cartoccio di succo di frutta con cannuccia, un sacchetto della spesa, un imballo per affettati. Smuovo della terra ed esce un vecchio flacone di detersivo e un pezzo di tubo in pvc: sono sottoterra da decenni, intatti, ci staranno per millenni. E mentre voi leggete, nel mondo miliardi di altri oggetti di plastica sono caduti dalla mano di qualcuno o buttati consapevolmente da un camion in una discarica non controllata.
l vento porterà via quelli più leggeri che si impiglieranno tra i rami degli alberi, si mischieranno con le foglie secche, i vecchi copertoni rotoleranno lungo qualche scarpata e si copriranno di terra, e ogni altro oggetto grande o piccolo trasportato dai fiumi finirà in mare. Un disastro che si ingigantisce ogni giorno. Che cosa fare allora? Innanzitutto mettere una tassa a cauzione su tutti gli oggetti e gli imballi, che favorisca la riconsegna a punti di raccolta capillari sul territorio invece che l’abbandono. Poi bisognerebbe raccattare quello che in quasi un secolo abbiamo sparso ovunque. Difficile farlo nell’immensità degli oceani, ma almeno sulle terre emerse, sotto casa nostra, sarebbe facile riavvolgere il nastro dell’ignoranza: le mani che hanno buttato, raccolgano ogni giorno un rifiuto e lo differenzino con cura.
Servirebbe di più di tanti inutili discorsi.