Roberto Vecchioni ha diviso la sua vita tra la musica e l’insegnamento: per mezzo secolo è stato contemporaneamente uno dei maggiori cantautori italiani e professore di latino e greco al Liceo Classico. Adesso è docente di forme di poesia in musica alla facoltà di lettere dell’Università di Pavia, mentre il suo ultimo album, L’infinito, è diventato disco d’oro per aver superato le 25mila copie vendute.
Qual è oggi, secondo il professor Vecchioni, il principale difetto dell’università e della ricerca in Italia?
«Il fatto che noi insegniamo a giocare a calcio e, appena escono dall’università, i nostri studenti si ritrovano a giocare invece a pallavolo. Sono atleti specializzati, allenati benissimo, ma per uno sport completamente diverso da quello nel quale dovranno cimentarsi».
Che cosa vuol dire?
«Che non c’è nessun rapporto tra l’università e la vita lavorativa. Che c’è un distacco fortissimo tra ciò a cui noi li prepariamo e quello che li aspetta dopo. Così, dopo aver studiato ed essersi impegnati all’università, devono poi ricominciare daccapo e imparare il mestiere della loro vita lavorativa». Quale giudizio si è fatto dell’università italiana? «C’è qualche facoltà un po’ inutile, che dà solo piccole informazioni e andrebbe eliminata o potrebbe essere gestita meglio. Ma per il resto si tratta di corsi di studio eccellenti, che funzionano e preparano benissimo. Penso soprattutto a ingegneria, chimica e medicina. E anche a lettere».
E della scuola italiana che cosa pensa?
«La scuola italiana è tra le migliori al mondo, perché tiene ancora in grande considerazione l’umanesimo. E gli studi umanistici sono i più importanti perché costituiscono una buona base per ogni tipo di studio. Altrove invece ci si specializza subito e si dimentica tutto il resto».
Al contrario, sono in molti a rimproverare alla scuola italiana di privilegiare la cultura umanistica e sottovalutare quella scientifica.
«Io penso invece che qualsiasi facoltà abbia bisogno di una base umanistica. Soprattutto le facoltà scientifiche».
Che cosa può offrire l’umanesimo alla cultura scientifica?
«La rapidità di soluzione, visto che la cultura umanistica propone una casistica immensa. Una formazione vera, senza questo tipo di cultura, è talmente impoverita da risultare impensabile e impossibile». Tutti concordano che l’università italiana sia spesso eccellente e poi non si spiegano la fuga dei cervelli. «Dispiace molto anche a me, però me la spiego facilmente: in Italia siamo poveri e non abbiamo grandi strutture».
E qualcuno si lamenta anche per l’invasione della lingua inglese nei nostri atenei. Sono in molti a richiedere le tesi di laurea scritte in inglese.
«Amo moltissimo la lingua italiana e non conosco l’inglese. Però hanno ragione, perché ormai l’inglese è davvero la lingua universale e ignorarla significa essere tagliati fuori dal mondo».
A parte l’istituzione scolastica e universitaria, qual è lo stato di salute della cultura sui giornali e sulla rete, in televisione e sui media in genere?
«Purtroppo all’insegna dell’effimero: superficiale ed evanescente. È un’Italia slabbrata, ricca di canali di informazione dove però le notizie svaporano e si finisce col non sapere niente. Capita spesso che a Milano, la città dove vivo, arrivino premi Nobel e siano protagonisti di incontri memorabili. Io li vado a vedere, mi entusiasmo e poi noto che la stampa li ignora. Arriva il Dalai Lama e viene confinato in un trafiletto a pagina 14. Colpa di un giornalismo che ormai cerca solo il clamore e trova spazio per la cultura solamente quando può collegarla a risse e polemiche».
Lei invece, nel suo ultimo album, orchestra con testi poetici e musiche bellissime Leopardi, Calvino e il valore della parola.
«A questo proposito, le do una notizia in esclusiva. La casa editrice Bompiani ha deciso di pubblicare le mie lezioni universitarie in un libro che uscirà entro quest’anno: si tratta di trenta canzoni commentate dal punto di vista tecnico. Per dare dignità culturale anche a quella forma di poesia in musica che è la canzone».