Spirito di patata

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15 Novembre 2017
Ma anche di rape, cipolle, carote, che crescono discrete sotto terra e arrivano sulla tavola in tante forme e sapori. E pensare che i nobili non le gradivano perché cibo del contadino...
di Massimo Montanari

Rape, cipolle, carote, patate. Sotto terra c’è un intero mondo di sapori, di cui a volte non ci rendiamo conto. Piante che non amano mettersi in luce, che nascono e si sviluppano con discrezione e riservatezza. A loro è dedicato quest’anno – anche per ricordare i 200 anni dell’introduzione della patata nel territorio bolognese – il Baccanale che questo mese si svolge a Imola e dintorni, coniugando cultura e gastronomia, sapori e idee.

C’è stato un tempo, non troppo distante da noi, in cui rape e cipolle (non ancora le patate, che vivevano solo al di là dell’oceano) erano disprezzate come cibi rustici, adatti alla rozza mensa dei contadini ma non certo a quella dei signori. Nel Medioevo qualcuno teorizzò che le piante, esattamente come gli uomini, si dispongono su una scala gerarchica di facile e immediata lettura: in alto, nobili e prestigiosi, i frutti che svettano sugli alberi; in basso, ordinari e banali, i cereali che ricoprono i campi; più sotto ancora, gli umilissimi bulbi e le radici che crescono sotto il suolo. Lo stesso si immaginò per il mondo animale, con i volatili che da lassù guardano gli animali di terra o i maiali che si rivoltano nel fango.

Per secoli, quest’ideologia della differenza sociale – trasportata nel mondo vegetale e in quello animale – fu ribadita con incrollabile certezza. Una sorta di ordine sociale della natura completava quello che si riteneva essere un ordine naturale della società, immutabile ed eterno. Signori e contadini, contrapposti sul piano sociale, si rappresentavano diversi anche in senso biologico, fisiologico, antropologico.
Perfino i testi scientifici (soprattutto quelli di dietetica, ma anche opere di agronomia o di scienze naturali) insegnavano che il contadino, se mangia i piatti raffinati destinati al signore, rischia di ammalarsi perché il suo stomaco grossolano non saprebbe come digerirli. Viceversa, il signore si ammalerebbe a mangiare i cibi del contadino. Esito parodistico di questa cultura è la storia di Bertoldo, il “villano rozzo e bestiale” protagonista, agli inizi del Seicento, di un racconto di Giulio Cesare Croce, il cantastorie di San Giovanni in Persiceto. Ospitato alla corte del re – che, avendolo preso in simpatia, lo tiene con sé per divertirsi delle sue astuzie e delle sue fulminanti battute – Bertoldo si nutre dei cibi del re: perciò si ammala e infine muore, per non aver potuto – recitò il suo epitaffio – mangiare rape, cipolle e fagioli. Il suo cibo, la sua salvezza.
Poi arrivò la cultura illuminista, che diffuse questa bizzarra teoria secondo cui gli uomini sono tutti uguali. Sicché oggi possiamo dedicare a rape, cipolle e compagnia un intero evento culturale, senza che nessuno si scandalizzi. Bertoldo si è preso una bella rivincita.

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